Altro che “Imagine”, fede e ragione salveranno il mondo

Riprendo in altra sede, come annunciato, il mio discorso critico sull’uso improprio che, a mio giudizio, si fa, in occasioni di tragedie come quella di Parigi, della canzone di John Lenhon, la quale altro non è, al di là dei meriti musicali, se non un’ode al vuoto, una apologia del non essere.

Non essere né di qui né di lì, non essere né per l’uno né per l’altro, non essere né di questo qua né di quello là: non essere per poter dire di essere per davvero, perché svincolato da tutto e tutti. Solo così, solo essendo non essendo si potrà davvero convivere in pace, tutti insieme, perché non c’è nulla difendere e quindi nulla da assalire.

Un mondo “anti-religioso, anti-nazionalista, anti-convenzionale, anti-capitalista”, Lennon dixit, è la chiave di volta. Un mondo “anti-”, l’antitesi come paradigma dell’agire, del pensare, del vivere.

L’antitesi per dire, insomma, che dove non c’è nulla non c’è nemmeno il rischio che ci sia qualcosa di male, di sbagliato, finanche di tragico. Vedere quell’ignoto pianista, ascoltarlo cantare e inneggiare ad un’assenza come risposta al male tremendo che sta sconvolgendo il mondo, proprio in quel posto, davanti al teatro Bataclan, lascia una tristezza infinita.

Pensare di rispondere alla tragedia, alle atrocità e al male auspicando il vuoto, celebrando un ideale mondo “anti-” vuol dire erigere l’avamposto di un mondo che potrà solo perdersi ancor di più. Di fronte alla sofferenza, al dolore che non si riesce a comprendere, occorre cantare ciò che è, o perlomeno la speranza che qualcosa sia. Occorre, insomma, affermare. In fondo, è la scelta di fronte alla quale oggi, dopo i fatti di Parigi, ci troviamo tutti: scegliere il nichilismo, perché ciò che è porta sofferenza e dolore, e allora tanto vale che nulla sia; oppure decidere di affermare: un dio, una giustizia, una fratellanza, certi affetti, un senso intimo delle cose.

Tuttavia, qualcuno si è chiesto che senso avesse invocare la preghiera per quei morti e quindi ribadire i valori che si rifanno alla religione di Cristo. Svariati intellettuali si sono domandati cosa Oriana Fallaci trovasse nel Cristianesimo, ai loro occhi religione decadente o agonizzante. In un recente volume dal titolo “La vittoria della Ragione” di Rodney Stark, sociologo americano, docente presso la prestigiosa università di Baylor, si trova una risposta. Nel cristianesimo c’è la speranza del futuro fondata sulla contemplazione di una storia bimillenaria, straordinariamente complessa e animata da una solida alleanza tra fede e ragione. Un passato sul quale tuttora permangono pregiudizi, nebbie, leggende nere, che il libro dello studioso statunitense prova serenamente, pezzo a pezzo, a demolire.

 

Molto è stato scritto sui motivi per i quali, a partire dal Medioevo, l’Occidente ha sopravanzato il resto del mondo. Le spiegazioni più comuni hanno riguardato la felice configurazione geografica, l’espansione dei commerci, il progresso della tecnologia. Ma è stato completamente trascurato un fatto: nessuno sviluppo sarebbe stato possibile senza una profonda fiducia nella ragione, che affonda le proprie radici nella religione cristiana. In “La vittoria della ragione”, Rodney Stark propone quest’idea rivoluzionaria: le più significative innovazioni intellettuali, politiche, scientifiche ed economiche introdotte nello scorso millennio sono riconducibili al cristianesimo e alle istituzioni a esso collegate.

 

Secondo Stark, non sono state la contrapposizione tra la società laica e quella religiosa, né la competizione tra scienza e fede a farci progredire. Al contrario, è alla teologia cristiana che dobbiamo attribuire la vera origine della ragione. Mentre infatti le altre grandi religioni hanno posto l’accento sul mistero, sull’obbedienza e sulla meditazione, il cristianesimo ha abbracciato la logica e il pensiero deduttivo aprendo la strada alla libertà e al progresso. Nella sua analisi della supremazia occidentale, Stark ridimensiona in modo convincente «verità» ormai accettate da tempo. Dimostra, ad esempio, che il capitalismo prosperò secoli prima che esistesse un’etica protestante del lavoro, ovvero ben prima della Riforma, confutando l’idea che sia stata essa a favorirne la nascita. Nel V secolo, osserva Stark, sant’Agostino lodava sia il progresso teologico sia quello materiale, mentre, parecchio tempo prima di lui, Aristotele aveva condannato l’attività commerciale come «incompatibile con la virtù umana». Ciò rafforza l’idea che il Medioevo non sia stato un periodo di decadenza o di stasi (i famigerati «Secoli Bui»), ma al contrario la culla delle future glorie dell’Occidente.

“La vittoria della ragione” è un’analisi di ampio respiro che accompagna il lettore dal Vecchio al Nuovo Mondo, dal passato al presente, ribaltando in questo percorso non solo secoli di pregiudizi accademici, ma anche la radicata tendenza antireligiosa della nostra epoca. Quest’opera dimostra che ciò che più ammiriamo della realtà che ci circonda – il progresso scientifico, la democrazia, il libero commercio – è in larga misura dovuto al cristianesimo, e che noi oggi siamo gli eredi di questa grande tradizione.

Nel famoso discorso di Ratisbona – così sbrigativamente criticato dai salotti buoni dell’intellighenzia radical chic – Benedetto XVI ha tessuto innanzitutto un grande elogio dell’illuminismo. Proprio di quello che oramai in Francia va allo sfasciacarrozze, o direttamente all’obitorio. Il Papa descrisse “l’incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione”. Parlò della natura “del pensiero greco fuso ormai con la fede”, fondamento antico dell’occidente, del rapporto tra fede e ragione, del nesso tra religione e civiltà; parlò della necessità di “allargare l’illuminismo”, di non ridurlo cioè a quella cupa caricatura destinata al suicidio (della rivoluzione) o alla gola tagliata e al kalashikov del jihadismo che è oggi. “Non ritiro, non critica negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia di fronte alle possibilità dell’uomo, vediamo anche le minacce che emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo dominarle”.

A Ratisbona la questione che Ratzinger colse fu il giudizio sul mondo contemporaneo. Il Papa, che altrove scrive testualmente che il cristianesimo “in quanto religione dei perseguitati, in quanto religione universale… ha sempre definito gli uomini, tutti gli uomini, senza distinzione, creature di Dio, immagine di Dio, proclamando in termini di principio la stessa dignità, ha voluto ricordare che l’illuminismo è di origine cristiana ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana”.

Otto anni fa Benedetto XVI aveva esattamente individuato il male che corrode l’Occidente. Ossia un  certo modo di intendere la ragione. Non fu dunque quel discorso soltanto una aperta condanna dell’uso della violenza e del fanatismo che strumentalizzano il nome di Dio. Fu qualcosa di più ampio, di più profondo e profetico. Un  pensiero alto, lungimirante, incardinato in un nucleo filosofico, teologico, storico e culturale sulle cui basi il grande Pontefice filosofo poneva alcune domande cruciali. Domande che si ripropongono con forza all’indomani delle stragi di cristiani nel cuore della Siria e dell’Iraq, del feroce, orribile attentato dei tre terroristi islamici addestrati nelle milizie jihadiste contro l’inerme redazione del giornale satirico francese “Charlie Hebdo”, per finire alla carneficina dei giorni scorsi. Domande cruciali, appunto. Come quella sul rapporto tra spada e ragione.

E’ qui che si innesta il discorso sulla religione: “Nel mondo occidentale domina largamente l’opinione che soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali. Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa esclusione del divino dall’universalità della ragione un attacco alle loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è sorda e respinge la religione nell’ambito delle sottoculture, è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture”.

Che ne pensano ora di quelle parole i tanti detrattori di allora? Si facciano un esame di coscienza., considerata anche  l’incapacità della cultura “laica” post-giacobina di dare risposte adeguate a un problema, quello del confronto tra forme consolidate di vita e di pensiero molto diverse, che il relativismo e il nichilismo – di cui Imagine di John Lenhon è icona significativa – non risolve ma anzi complica.

Francesco Saverio Calcara

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