La sacra rappresentazione, che si inserisce nel quadro di quella spettacolarizzazione liturgica tipica dei paesi che gravitavano nell’orbita della Spagna, fu introdotta a Castelvetrano, verso il 1660, dai padri Carmelitani scalzi di santa Teresa, il cui convento, oggi distrutto, era annesso, alla chiesa di san Giuseppe.
La confraternita dei falegnami e bottai curava l’addobbo e il trasporto del simulacro del Cristo risorto, mentre quella del Rosario si occupava della Vergine Maria.

Scomparsa la compagnia del Rosario, è la confraternita di san Giuseppe, ancora esistente, a curare l’annuale appuntamento dell’ Aurora, ricorrenza di cui Castelvetrano è tanto gelosa da far nascere, non si sa bene su quale base, la convinzione che se l’ Aurora non si fa “si la pigghia Trapani”.
Circostanza che, almeno una volta, fu seriamente temuta, nella Pasqua del 1717, allorquando, come narra il Ferrigno, per l’accidentale mancato rispetto della prerogativa della chiesa Matrice di dare i tocchi della Resurrezione, il burbero arciprete Giglio lanciò l’interdetto alla chiesa conventuale di S. Giuseppe. Il rischio che non si tenesse l’Aurora fu comunque evitato grazie al provvidenziale intervento di mons. Bartolomeo Castelli, vescovo di Mazara, che in extrtemis ne autorizzò lo svolgimento.
Nei tempi passati si costumava sancire addirittura nei contratti matrimoniali l’obbligo dello sposo di condurre la propria moglie alla festa dell’ Aurora e alla fiera della Tagliata.

I più anziani ricordano la lunga teoria di carretti che sin dalla notte del sabato venivano dalla vicina Campobello a prendere posto per la festa dell’ indomani.
Festa pagana, dice qualcuno; trasposizione in chiave religiosa di antichi riti primaverili legati al ciclo agricolo, pontifica qualcun altro; cosicché in passato anche qualche pretino, animato da falso spirito di rinnovamento e da uno zelo degno di miglior causa, ne aveva cautamente proposto l’abolizione.
A me sembra, invece, che il rito vada invece conservato e valorizzato quale espressione della simbologia della vittoria della vita sulla morte; e ciò mi sembra importante, di là dal valore religioso che pure è importante, anche come fattore di riscatto da un’idea tanto sedimentata nell’anima del nostro popolo. Fra tutti, come dicevo prima, il pensiero della morte e di ciò che la segue ha da sempre attraversato la fantasia della nostra gente. Non a caso, uno dei più grandi scrittori siciliani, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ha individuato nel motivo della morte il protagonista implicito del Gattopardo: “Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte…”.

continua..

AUTORE.   Francesco Saverio Calcara