Il fascino oscuro della morte e dell’aldilà è largamente attestato in Sicilia dalle fonti e dal mito. Il passaggio dalla sfera mitica al rito si applica in modo esemplare proprio nell’Isola, quando si parla di Demetra e Kore, le due divinità note per i misteri eleusini. La vena ispiratrice di questo mito è legata all’attività agraria e alla fecondità; l’agricoltura e i suoi simboli, il grano, la spiga, sono il sostrato di base da cui si sviluppa tutta la vicenda, per culminare nel rapimento della figlia, e si traduce nell’avvicendarsi del ciclo stagionale di nascita-morte-rinascita. A questo si affianca il rituale del rapimento, della discesa agli inferi, della theogamia con Ade, della ricerca da parte della madre, del ritorno di Kore sulla terra. La stessa presenza del santuario di Malophoros a Selinunte è la testimonianza più prossima di quanto il culto dell’oltretomba sia radicato nella memoria collettiva del nostro popolo. Intesi a procurare la felicità oltre la tomba, i misteri rivelavano probabilmente la via che l’anima era obbligata a seguire dopo la morte: “Felice è chi ha ricevuto tale visione prima di scendere sotto terra; – esclama Pindaro – egli conosce cosa sia la fine della vita; ne conosce il principio donato da Zeus”.

Né è estranea al deposito di tale struttura mentale la fortuna in Sicilia, durante la dominazione araba, di un testo che si vuole sia stato fra i modelli della Commedia di Dante: il Libro della Scala di Maometto, nel quale si sviluppa il concetto di ascesa dell’anima individuale nei regni ultraterreni, come allegoria della purificazione graduale dell’uomo; un elemento, questo, che fin dal secolo VIII costituisce il motivo di fondo di numerosi racconti mistici ispirati al miraj di Maometto. E non è fortuito che a uno di questi racconti si ispiri un’opera cristiana, redatta in Sicilia alla fine del sec. XII e resa nota da M. T. D’Alverny in Les pérégrinations de l’âme dans l’autre monde (1940-42), nella quale l’anonimo redattore, che aveva molta familiarità con la filosofia neo-platonica e con i commenti avicenniani ad Aristotele, prospetta, dopo la morte, un’ascensione dell’anima al Paradiso e una sua discesa all’Inferno.

E come non ripensare al fatto che in Sicilia sono proprio i defunti a recare i doni ai fanciulli, segno di una ideale continuità generazionale, del radicato convincimento di una qualche forma di vita oltre la morte? o il perdurare, appunto, delle sacre rappresentazioni pasquali, retaggio della lunga influenza spagnola, nelle quali il dramma della passione di Cristo e dell’angoscia della Madre sono vissuti – in quella che Sciascia definisce, forse troppo frettolosamente, una visione materialistica della religiosità – come la proiezione del dolore universale, vissuto però nella prospettiva catartica e liberatoria della Resurrezione; laddove la gioia della vittoria della vita sulla morte, della luce sulle tenebre – Aurora, appunto! – si esprime sovente in toni che possono apparire, a chi non conosce sino in fondo l’animo del popolo siciliano, esagerati e quasi pagani? Mi sovviene a proposito quanto scrisse Jean Houel nel suo Viaggio in Sicilia, compiuto tra il 1776 e il 1780, allorché, assistendo proprio a Castelvetrano ad una processione religiosa, annotava che la sacra cerimonia si presentava più pittoresca che edificante, e aggiungeva: “La natura di questo popolo si rivela nelle feste. E spesso se non fossero trattenuti dal decoro che la religione comporta ed esige, gli impulsi di un santo zelo li porterebbero a stravaganze non meno strane che ridicole”.

continua..

AUTORE.   Francesco Saverio Calcara