Cultura

“Bèlice” o “Belìce”: le ragioni di un nome

Diversi anni fa, l’autorevole giornalista Demetrio Volcic, aveva promosso la lodevole iniziativa – che, purtroppo, a causa della instabilità dirigenziale della RAI, non poté essere realizzata – volta a far rispettare dall’emittente le locali pronunce dei nomi geografici, sottraendoli all’arbitrio, spesso di ascendenza anglofila, dei singoli giornalisti.

Vittima di tale tendenza fu, al tempo del sisma del ’68, la voce Belìce; essa, da parola piana che, rispettando la tradizionale pronuncia locale, era sempre stata, e sulla quale non era ovviamente necessario evidenziare l’accento grave sulla ì, fu trasformata, a causa del potente impatto dei media, in una sdrucciola: Bélice.

Non so cosa abbia maggiormente originato questa alterazione della pronuncia: se una diffusa, e un po’ snobistica, tendenza letteraria ad arretrare l’accento tonico, quasi a voler nobilitare e rendere più britannicamente elegante una voce che, nella normale dicitura piana poteva sembrare banale, ovvero una più prosaica disattenzione per la realtà linguistica locale, frutto di un certo pressappochismo professionale, del resto non inconsueto tra giornalisti e inviati di mamma RAI.

Sia come si vuole, lo spostamento d’accento divenne prevalente in tutta la Penisola e la parola Bélice entrò nel lessico quotidiano come sinonimo di ritardo e di inefficienza. L’originaria pronuncia, caldeggiata, tra gli altri, dal prof. Benedetto Patera, cominciò ad essere ribadita, a livello scientifico, nel 1991, nel corso di un congresso, promosso nel marzo di quell’anno, dalla Società Siciliana di Soria Patria, fino ad arrivare alla riconsacrazione ufficiale, avvenuta a Salaparuta, nel giugno successivo, in occasione di un convegno organizzato da quel Comune e dall’Opera Universitaria, nel cui manifesto, a scanso di equivoci, lo stesso nome venne scritto con l’accento grave sulla ì.

A tal proposito, l’autorevole Dizionario Onomastico della Sicilia di Girolamo Caracausi (Palermo 1993), pur riportando il toponimo nell’accezione ormai invalsa nei mezzi di comunicazione sociale, avverte opportunamente che “la posizione originaria dell’accento, per la quale cfr. Bilìci in Mortillaro (e ancor oggi così nell’uso locale), è stata alterata nell’ormai dominante pronunzia Bèlice”.

BELICE

Val la pena, dunque, di compulsare l’autorevole Mortillaro, riferimento obbligato per la filologica acribia con cui viene segnata la pronuncia di ogni termine, per ritrovare, a pag. 11, la parola scritta tutta in lettere maiuscole BILÌCI e BELÌCI, coi suoi bravi accenti tonici posti sulla penultima sillaba, a designare la dizione piana del lemma. Si può, ad abudantiam, consultare la grande ed autorevole Enciclopedia Italiana (la cosiddetta Treccani) per constatare come, alla pag. 542 del VI volume, la voce è riportata senza alcuna indicazione di accento e dunque, secondo le convenzioni, essa è da considerarsi piana; cosa che notiamo pure sull’Atlante e Repertorio Geografico, edito dalla stessa Enciclopedia nel 1973, alla pagina 41.

D’altro canto, Benedetto Patera ha illustrato, muovendo dalle fonti diplomatiche dell’XI e del XII secolo, e attraverso lo spoglio di documenti che arrivano fino all’Ottocento, le fasi che hanno portato alla trasformazione dell’antico nome greco Hipsa al Bil’ch arabo, al Bilìchis o Bellìsi normanno fino al siciliano Bilìci e all’italiano Belìce che già a metà del Settecento appare definitivamente stabilizzato nella sua corretta forma piana.

A qualcuno, ovviamente, potrebbe sembrare una questione di lana caprina quella relativa allo spostamento di un accento; una modifica che un convegnista, a Gibellina, una volta ebbe ironicamente a definire come l’unico fatto concreto seguito al terremoto. Ma a ben guardare così non è; giacché se è vero che nomina sunt consequentia rerun (e in tal senso non mi stancherò mai di stigmatizzare l’uso improprio della espressione “Regione Sicilia” in luogo della corretta dicitura “Regione Siciliana”), il mancato rispetto dei nomi si inquadra nel ben più vasto fenomeno di disattenzioni e superficialità che sono all’origine dei tanti guai e dei tanti errori successivi al terremoto del ’68: dallo sconsiderato abbattimento di tanti monumenti che, invece, potevano essere salvati (come il nostro S. Giuseppe) a certe infruttuose utopie urbanistiche che ci hanno regalato città lunari e senz’anima. Recuperare la memoria, l’identità, il valore dell’appartenenza, significa innanzitutto riappropriarsi dei nomi, ed è per questo che ogni buon siciliano deve dire Belìce.

Francesco Saverio Calcara

Pubblicato in data 2 giugno 2012

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  • Grazie della precisazione, Antonio. In effetti, avrei dovuto ricordare l'ottimo articolo di Paolo Rumiz, "La scossa che spostò un accento".

  • Grazie per questo articolo che sottoporrò all'insegnante di mia figlia. Ho spiegato a mia figlia che nella parola belice la sillaba tonica è la seconda, così quando è stata interrogata dalla maestra sulla grande isola ha pronunciato il nome del fiume Belìce. La maestra l'ha "corretta", e la bambina ha argomentato che la mamma le ha detto che "durante il sisma del 1968......." La maestra ha liquidato l'obiezione della bambina con un "la mamma si è sbagliata". Capisco che con i problemi che il nostro Paese si trova a dover affrontare oggi, la questione di un accento sia veramente marginale, tuttavia trovo personalmente corretto restituire la "dignità di pronuncia ad un fiume che deve la sua notorietà al terremoto del 1968 e al quale ancora oggi ci si riferisce quando si parla di questo evento; altra ragione, del cuore questa volta:mi piace ricordare la pronuncia dei miei nonni quando si riferivano a tal fiume.
    Dana

  • il nome della valle del belice nel dialetto e territorio castelvetranese si deve considerare come lannaru, dal latino lanarius,fiume delle pecore,quello che il realtà è il modione ,in greco selinus ,oppure egospotami, fiume delle capre ,dove fu sconfitta cartagine. oppure il termine magaggiari, o margiu, palude...il nome belice fu esteso a noi dopo il terremoto.noi, a castelvetrano siamo ni lu lannaru o magaggiari...il vero belice è da partanna in su.in siria è il vero fiume belice, affluente dell'eufrate, infatti il conquistatore arabo era ben forat,figlio dell'eufrate..

  • come saddamm hussein era al tikrit, figlio del fiume tigri, che con l'eufrate ha la forma di una y,appunto come il nostro fiume...

  • Bene, Bravo,
    non è solo questione di lana caprina, ma identità perduta......

    a parer mio l'accento si è perso quando avvenuto il terremoto del 68
    il cronista in televisione riportava la notizia
    TERREMOTO NELLA VALLE DEL BELICE

    e da allora 'u bilìci ci trasorma in belice

    il Rotary di Castelvetrano da sempre si è chiamato
    Rotary Club Castelvetrano Valle del Belìce

    e in giro per l' Italia nelle varie conferenze a cui ho partecipato ho sempre riportato l'accento nel posto giusto

    Ancora Bravi e grazie da un cittadino originario della valle del Belìce

  • Nell'agrigentino sicuramente Bilìci, ma nel trapanese, essenzialmente dalle parti di Marsala da sempre Bèlice. Personalmente l'ho appreso sin dagli anni Cinquanta del secolo scorso, ovvero da quando ho iniziato a frequentare questa straordinaria zona umida mediterranea. Non comprendo il motivo per il quale il Calcalcara non abbia citato il Dizionario enciclopedico italiano dell'Istituto della Enciclopedia Italiana (fondata da Giovanni Treccani) che al II volume, pag. 174, pone l'accento proprio sulla " e ". Il vernacolo è una cosa, ben altra cosa è la lingua letteraria. Il vernacolare lasciamolo ai padani che vorrebbero isolarsi dal resto d'Italia.

  • Il fiume Belìce e la valle che attraversa esistono da quando si formò il mondo; qui undici popoli, nostri dominatori, provenienti da tutto il Mediterraneo apportarono la loro cultura e la loro lingua. Il vocabolo Belìce, che significa valigia, ha origini antichissime, sicuramente di origine greca, ed è stato usato fino al tristemente famoso terremoto del ‘68. Fino a quella data tutti scrivevano e leggevano Belìce e così rimase nella parlata locale. Anche Leonardo Sciascia scriveva Belìce.
    Durante il terremoto arrivarono nella valle giornalisti del Nord Italia che, non conoscendo la parlata locale, hanno scritto Belice. Da quel momento è sorto il dilemma.
    Capisco che gli italiani, Piemontesi in prima linea, hanno spogliato la Sicilia di tutte le sue ricchezze, ma non possiamo permettere assolutamente che ci rubino anche le nostre tradizioni. I piemontesi sono venuti a conquistare la Sicilia quando il fiume aveva già un nome e non ce lo possono modificare.
    A conferma della mia tesi, voglio aggiungere che oggi, con la globalizzazione, molti vocaboli nuovi provenienti dall’Inghilterra, una nazione più forte economicamente, ma non culturalmente, entrano nella nostra parlata locale. La novità colpisce i giornalisti, che subito l’adottano, gli altri subito seguono il cattivo esempio. Ebbene, questi vocaboli conservano la loro pronuncia originale.
    Una volta la lingua francese era riconosciuta e parlata nelle conferenze internazionali Quando andavo a scuola, Siccome molte espressioni francesi erano entrate nella nostra lingua parlata, a scuola, per curare la purezza della lingua italiana era considerato errore l’uso dei francesismi.
    Visto che siamo tutti italiani è giusto che la lingua letteraria venga usata e rispettata per i vocaboli di uso corrente. Qui però si tratta di un vocabolo prettamente locale già in uso prima della così detta unità d’Italia.
    Se la Sicilia è povera di patrimoni materiali, che almeno ci restino quelli virtuali; che il vocabolo Belìce rimanga ancora nel nostro patrimonio!!
    VITO MARINO

  • In italiano, di regola, le parole sono piane, cioè con l'accento sulla penultima sillab: belìce. Bèlice sarebbe sdrucciolo.. ma dopo 40 anni di accento 'sdrucciolato' 'belìce suona cacofonico..

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Francesco Saverio Calcara