Mi chiamavano, ironicamente, “preside antimafia”, quando l’antimafia a scuola non era ancora di moda, ma veniva considerata pericolosa perché “si nuoceva il cane che dorme”. Ma io, sin da ragazzo, avevo scelto la strada dell’impegno e del servizio per contrastare l’ingiustizia sociale e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Formatomi in azione cattolica, ero solito divorare i libri sulla vita dei santi che il mio buon assistente spirituale mi forniva, gli unici, d’altronde, che avevo a disposizione. Sulla scorta del loro esempio ho pensato di fare il missionario per aiutare i lebbrosi e coloro che morivano di fame in terra d’Africa o nel Mato Grosso. Crescendo, però, ho capito che i poveri li abbiamo anche qui fra noi, per cui, laureatomi, ho scelto di restare qui, nella nostra terra, per dare una mano a coloro che lottavano per il riscatto della Sicilia, in attesa di vincere i concorsi a cattedra, piuttosto che andare al nord, alla ricerca facile di un incarico, che allora non si negava a nessuno, per traghettare, dopo alcuni anni di insegnamento, nei ruoli della scuola. Una scelta che mi ha portato a lottare con Danilo Dolci per le strade e per le dighe, con don Antonio Riboldi per la ricostruzione del Belice, con il senatore Ludovico Corrao per la rinascita culturale delle zone terremotate.

Chiusa la parentesi di un impegno politico, che si è rivelato falso e illusorio, mi sono dedicato totalmente alla missione di favorire la formazione di una coscienza civile e democratica tra le nuove generazioni, prima come docente, poi come preside, sino a quando, nel 1992, non ho sentito sul mio collo l’alito puzzolente e disgustoso della mafia.

Anche allora vi fu una serie di episodi (la targa della scuola divelta e spezzata in due, la telefonata minacciosa a mia madre, la gallina infilzata alla cancellata della scuola, il cerone dietro la porta di casa) che furono giudicati “ragazzate”, sino a quando la notte del 16 maggio la mia alfa rossa fiammante, posteggiata sottocasa perché l’indomani sarei dovuto andare in una scuola di Piazza Armerina per un dibattito sulla mafia, non divenne fiammeggiante.

La bottiglia con il residuo del liquido infiammabile usato lasciata a pochi passi di distanza non lasciava alcun dubbio sulla causa dell’incendio e dava anche una paternità alle “ragazzate” precedenti. Ricordo che mio figlio, appena quindicenne, si slanciò per andare a spegnere l’incendio della sua macchina (l’avevo acquistata perché era piaciuta a lui), trattenuto a stento da mia moglie. Ricordo che i condomini, oltre a chiedermi di ripristinare a mie spese il prospetto deturpato dalle fiamme, posteggiavano le loro vetture lontano da quella di mia moglie, a scanso di ogni rischio, che i colleghi, con cui ero solito andare a Trapani o a Palermo per le riunioni, non furono più disponibili a viaggiare con me, che i miei cognati, con cui dividevo la villetta per l’estate, rinunciarono alla villeggiatura.

Mi sentivo un appestato, accusato di smania di protagonismo da una parte, di chissà cosa dall’altra. Una situazione che si è protratta sino a quando si è presentata l’occasione di assumere la presidenza del Liceo Ballatore di Mazara del Vallo, dove sono stato in esilio volontario per allentare una pressione che rischiava di diventare una sfida personale tra me e qualche mafioso. Sono ritornato, dopo dieci anni, perché il mio cuore non aveva retto e gli acciacchi non mi consentivano di viaggiare, ma anche perché, se non soprattutto, ero orgoglioso di assumere la guida di un glorioso istituto, che ingloba il Liceo Classico “Giovanni Pantaleo” e il Liceo delle Scienze Umane “Giovanni Gentile”, dove avevo concluso i miei studi liceali.

Mi sono, sin dall’inizio, prefisso di operare con discrezione, di evitare ogni forma di visibilità, rifiutando interviste e passerelle, delegando a rappresentarmi nelle varie manifestazioni un mio collaboratore. Ma non potevo, né volevo, rinunciare all’educazione alla legalità, sempre portata avanti da me, prima da docente e, poi, da preside, sin dai lontani anni ottanta del secolo scorso. Così ogni anno ho avviato le attività didattiche con delle lectio magistralis sulla mafia tenute da magistrati o da persone impegnate come Rita Borsellino, ho organizzato, poi, convegni su tematiche specifiche collegate alla mafia, uno dei quali ha affrontato il problema della “Mafia nel carrello”, riferendosi, in modo particolare alla città mercato costruita da Grigoli come un monumento alla superpotenza di Matteo Messina Denaro.

Nel 2010 per celebrare l’anniversario della strage di Capaci ho organizzato una tavola rotonda con la partecipazione, tra gli altri, dell’europarlamentare Rosario Crocetta, già sindaco di Gela, e del sen. Giuseppe Lumia, già presidente della Commissione parlamentare antimafia, i quali, per non smentirsi, hanno parlato senza peli sulla lingua. Quest’ultimo, soprattutto, nel suo vibrante intervento, ha disegnato la rete di potere, affari e collusioni criminali di Matteo Messina Denaro, ponendo l’accento sulla negatività della sua presenza nel territorio e usando provocatoriamente nei suoi confronti pesanti espressioni per distruggere l’icona di eroe negativo diffusa nell’immaginario collettivo. Gli studenti con uno scrosciante applauso hanno espresso la loro chiara e netta approvazione al discorso, suscitando il fastidio in alcuni presenti mai visti prima. Ciò, probabilmente, ha dato molto fastidio alla mafia.

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AUTORE.   Francesco Fiordaliso