Tra storia e leggenda dei patti tra Stato e mafia, è qui in questo luogo che se ne consumò certamente uno, il primo del dopoguerra.

Il bandito di Montelepre Salvatore Giuliano è in questo cortile che venne trovato morto, ucciso, raccontarono ai cronisti dell’epoca, al termine di un conflitto a fuoco con i carabinieri.

Sparatoria inesistente. Giornalisti e fotografi videro il corpo di Giuliano steso a terra, torace e volto in giù, era insanguinata la canottiera, il temibile bandito non faceva più male a nessuno, lo Stato si presentava vittorioso. Ma era stata la mafia a «vendere» il bandito.

Uno dei cronisti che era presente sul luogo era Franco Grasso, Vincenzo Vasile in uno scritto lo ha ricordato, Grasso negli anni ’50 lavorava per la «Voce della Sicilia», fu lui a «sbugiardare» la cronaca dell’uccisione del bandito Giuliano, «il primo falso di Stato dell’Italia repubblicana» scrisse Vasile. Per terra, in quel cortile, non c’era sangue mentre ciò che Giuliano indossava ne fosse intriso.

Giuliano fu ucciso da Gaspare Pisciotta a casa dell’«avvocaticchio» Gregorio De Maria, questi, ancora vivo, quasi centenario, ricorda che sentendo sparare in casa corse verso la camera dove era Giuliano incrociò Pisciotta che fuggiva via e che gli disse, «avvocato qui sparano». Pisciotta era arrivato lì con Giuseppe Marotta, commerciante di olio e vino, il cosidetto «’ntiso» del paese, suo fratello Nino aveva portato Giuliano a casa dell’avvocato De Maria, la vigilia del Natale del 1949. «Marotta – ha raccontato l’avvocaticchio, che oggi ha 99 anni – bussa alla porta della mia casa. Io vado ad aprire e m’accorgo che non è solo. Ti ho portato due pellegrini – mi dice – puoi ospitarli per qualche notte?… Mi sentii di morire. Avevo riconosciuto uno dei due, era Salvatore Giuliano».


Sessant’anni dopo il nome di Nino Marotta riemerge. Ad 83 anni è il più anziano dei mafiosi in attività. È tra i 18 arrestati dell’operazione «Golem 2». Dal 1950 ad oggi ne ha fatta di carriera, è passato dalla «banda» Giuliano fino a diventare il «consigliori» dei Messina Denaro, del «patriarca» Francesco Prima e di suo figlio Matteo oggi.

Il riemergere del nome di «don» Nino Marotta riporta a uno dei primi grandi misteri del dopoguerra, dietro il delitto Giuliano la trama di una «trattativa» con pezzi dello Stato e con l’ispettorato antibanditismo, il ruolo di un capitano dei carabinieri, Antonio Perenze, la falsa ricostruzione dei fatti. De Maria fu assolto al processo di Viterbo contro la banda Giuliano: secondo i giudici agì in stato di necessità. La sua vita però, ha confidato ai giornalisti, «è stata capovolta», non potè diventare notaio, come progettava, e finì per insegnare prima educazione fisica e poi inglese. Di tanto in tanto racconta che incontrava Nino Marotta (Giuseppe morì nel 2004), facendo l’unica cosa saggia che racconta sa di dover fare e cioè «salutarlo per primo».

Sessant’anni dopo nei «pizzini» di Matteo Messina Denaro si coglie l’ombra di una trattativa ancora tra mafia e Stato, come ai tempi di Giuliano. «Golem 2» inoltre svela come il Sisde, l’ex servizio segreto civile, tentò di entrare in contatto con Messina Denaro (per la sua cattura si dirà), gli uomini del prefetto Mori si erano rivolti ad un ex sindaco di Castelvetrano, Tonino Vaccarino e questo fino al 2006, quando la Procura di Palermo pare fino ad allora non informata viene notiziata di quella corrispondenza tra Alessio (Messina Denaro) e Svetonio (Vaccarino).

Rino Giacalone
per antimafiaduemila.com

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