[di Giusy Agueli, Condividere] L’adolescenza è un momento molto delicato che segna il passaggio dall’infanzia all’età adulta. Sono molti i compiti evolutivi a cui i giovani sono chiamati: instaurare relazioni nuove e più mature, acquisire ruoli sessuali adulti, accettare cambiamenti del proprio corpo. In questo percorso di costruzione dell’identità gli adolescenti spesso si sentono soli, non compresi, non riconosciuti, non amati, sperimentando dei disagi che esprimono in vari modi. Tra questi vi sono delle forme di autolesionismo di cui uno è il cutting. È questo un termine inglese che deriva dal verboto cut che significa tagliare, ferire. Ragazzi giovanissimi che si feriscono la pelle delle braccia o di altre parti del corpo per fare uscire delle sofferenze che non riescono a gestire, per alleviare un malessere o per lasciare un segno.
Un comportamento che, secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza, è sempre più precoce, inizia anche a 11 anni, con una sempre maggiore diffusione e riguarda in prevalenza le ragazze. Ci si taglia soprattutto con la lametta e dappertutto: sulle braccia, sui polsi, sulle gambe, sul torace. Ci si taglia sul corpo, da sempre campo di espressione e di scontro delle istanze più profonde e inconfessabili della nostra psiche, che diventa la tela dove imprimere il proprio dolore, in particolare se questo è sconosciuto e indecifrabile. Un dolore che sempre più gli adolescenti non sanno mettere in parole, per una sempre crescente carenza di sintassi emozionale. E allora hanno trovato un rimedio. Ci si taglia per sostituire un dolore psichico con un dolore fisico, paradossalmente più facile da sopportare. Non è mai un’unica “causa” a spingere un adolescente a farsi del male.
di GIUSY AGUELI, psicologa clinica
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