La Divina Commedia è stata scritta perché potessimo intraprendere il viaggio verso la felicità e la salvezza eterna. Dante, come fa dire a Cacciaguida, ha pensato a sé e a coloro che avrebbero chiamato il suo tempo antico, cioè ai posteri, cioè a noi. Inoltre, il Poeta mette subito in relazione la questione della bellezza con la felicità e, addirittura, con la salvezza eterna. La missione di cui si sente investito è la testimonianza della verità non solo annunciata ma anche sperimentata. La cognizione di un simile compito lo spaventa, così come tutti noi siamo, talvolta, tentati di rifiutare l’incarico che c’è stata assegnato, accampando la scusa di non essere all’altezza, proprio come fa il Poeta all’inizio del viaggio. Virgilio, però, che è simbolo della ragione umana, nel canto II, lo persuade a intraprendere il cammino, rivelandogli che esso è voluto dal Cielo, ovvero che il suo operato è strumento e cooperazione del disegno divino che, tuttavia, non coarta, anzi esalta, l’intelletto umano. E quando già Dante si inoltra tra le sfere celesti, si ripresenta ancora la tentazione di non obbedire al compito assegnatogli. Accade nel canto XVII del Paradiso.

Il trisavolo Cacciaguida, scioglie le pregresse e misteriose profezie, preannunciando al pronipote la dura evenienza dell’imminente esilio: «Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale». Preso dal timore, Dante manifesta all’antenato le sue perplessità ed è di nuovo spronato a compiere la sua missione. Ancora una volta, il monito è rivolto a tutti noi, giacché la Commedia parla dell’uomo, della vita, e lo fa con la potenza e la capacità di comunicazione propri del genio. Se tutti siamo colpiti dalle struggenti parole di Francesca, dall’ardimento di Farinata, dalla passione di conoscenza di Ulisse, dal dramma terribile di Ugolino è perché il Poeta racconta storie che sono iscritte nel cuore dell’uomo di ogni tempo. La Commedia ci schiude una visione della vita e ci aiuta a comprendere l’uomo di oggi e quello di ieri.

È come se avvertissimo una comunione universale tra i contemporanei e gli antichi, tra la nostra e la loro aspirazione alla salvezza, alla felicità e all’eternità. Ci accorgiamo che l’antico Dante sa esprimersi meglio di quanto non sappiamo fare noi, così come il maestro Virgilio nel viaggio sa intendere il discepolo meglio di quanto questi non conosca se stesso. Il tema del viaggio è l’immagine della vita di ogni uomo. In Dante che, nonostante le fiere, vuole da solo salire il “dilettoso monte”, ciascuno di noi riconosce se medesimo. Dobbiamo sperimentare che da soli non riusciamo nell’ascesa e, come Dante, dobbiamo mendicare e invocare «Miserere di me».

Per grazia, incontriamo una compagnia umana, ovvero riscopriamo la guida della ragione, che ci guida fuori dalla selva oscura, con cui poter intraprendere il viaggio di salvezza. Non c’è verso nell’Alighieri in cui non si respiri l’esperienza e la fatica di uomini che vogliono fare da soli e rifiutano la luce di Dio o di uomini che, invece, si lasciano abbracciare e si arrendono all’amore e alla grazia.Così, quando nel canto III del Purgatorio Virgilio è dispiaciuto per il rimprovero indirettamente mossogli da Catone, Dante esclama: «O dignitosa coscienza e netta/ come t’è picciol fallo amaro morso», ovvero il poeta dice che tanto più una persona è pulita nella coscienza tanto più si sente responsabile e peccatore. E più avanti scrive che i suoi piedi lasciarono andare la fretta «che l’onestade ad ogn’atto dismaga», sottolineando come la fretta tolga l’attrattiva ad ogni cosa bella. E come se il sommo Poeta volesse dirci: qualunque cosa tu faccia, falla bene, per non sminuirne la bellezza.

AUTORE.   Francesco Saverio Calcara