[di Giacomo Bonagiuso] Un giorno, il mio carissimo amico e maestro Nicola Di Maio, mi regalò una poesia di Nelo Risi come esergo della sua prefazione ad un mio libretto di poesie: era strano che uno che aveva la fama di “sperimentalista” in letteratura, mi donasse un elogio della fragilità così tanto lirico. Dopo tanti anni quel testo è tornato nella mia mente, ed oggi da esso ho deciso di partire:
C’è gente che ci passa la vita
che smania di ferire:
dov’è il tallone gridano dov’è il tallone,
quasi con metodo
sordi applicati caparbi.
Sapessero
che disarmato è il cuore
dove più la corazza è alta
tutta borchie e lastre, e come sotto
è tenero l’istrice.
Abbiamo costruito una società armata. Una società all’attacco, una società di alleanze, stratagemmi episodici, turnazioni: sembriamo intenti alla difesa di chissà quale status symbol, eppure sotto la corazza siamo tutti alla ricerca di un nido di calore, di qualcosa che allontani la nostra devastante solitudine. Potere, denaro, autorità, capacità di condizionamento di intere generazioni: sembrano spesso stratagemmi che l’umano si concede per alleviare la ferita originaria. Vorremmo tutti, come scrive il poeta, che qualcuno potesse accedere senza danni al luogo più protetto, il cuore, e presso questo anomalo muscolo indipendente dalla nostra volontà, sostare come in un abbraccio. Eppure, spesso, quando è accaduto che la corazza s’è allentata, chi ha avuto accesso a quel luogo, ci ha tradito, ci ha devastato, ci ha incendiato e ha seminato nell’animo campi di zizzania. Non ha profumo buono la zizzania, ma sembra l’infestante più in uso nel tempo della moderna fretta. Si semina a mano aperta, con facile superficialità, e poi, nel tempo segreto, essa, la pianta maligna continua a covare indifferentemente danno e beffa. In nome di noi stessi. Del nostro potentissimo ego. Ah, sapessimo quanto potremmo fare con un decimo di energia usata per ritrarci, o per colpire, in favore dell’altro e della sua nudità…
Già, perché se si potesse piangere senza essere etichettati come instabili o malaticci, se si potesse dichiarare la ferita e non la scure e l’armatura, avremmo voglia di poter dire a chiunque che siamo fragili, e che di questa fragilità vorremmo andar fieri, come dei nostri migliori auspici. Ed allora avremmo voglia di poter dire a chiunque che la fragilità è un dono, e non una falla; e vorremmo poter leggere intorno a noi – ah dannata e folle utopia – che questo è davvero condivisibile. Vorremmo poter dare le coordinate del cuore, pur se tutte le volte (o molte molte volte) è finito nella combinazione perfetta di una battaglia navale: colpito e affondato.
Vorremmo dimenticare o ricordare l’amico che ci ha venduti al peggiore offerente, solo perché l’offerente era la chiave di tutto quello su cui l’amico sputava veleno. Quel veleno era il suo bussare maldestro. Voleva stare là, tra la gente a sua misura, gente su cui a distanza sputava veleno solo perché non sapeva dire “permesso”. Fragile era. Pure lui, E fragile resta nella memoria, anche quando si pavoneggia col giubbotto di pelle da top gun. Anche adesso che ci pensa e non si vergogna affatto; perché sopravvivere è necessario. E per farlo ci si aggrappa a tutto, anzi… a chiunque. Piccoli. Fragili. Di se stessi non si può dire mai! Eppure, fuori da questo, l’omino si scaglia, giudica, mangia: sembra superman, superman con la tuta di marzapane e lo stelo di fiore. Ha paura. E non lo ammetterà mai.
Vorremmo dimenticare o ricordare l’amata che ha venduto se stessa e la sua dignità di madre, moglie e donna perché s’era messa in testa che il gioco si può fare con le persone e non soltanto con le cose. Voleva persone da spostare da qui a lì. Le voleva come giocattoli per un padre sbagliato, da perdonare davvero, e non da blandire. Adesso che ci pensa ha raso i capelli e cambiato strada; se la sentivi anni fa sembrava di ferro, senza anima e senza spirito, eppure è di ostia, leggera, fine. Macchiata dentro. Come tutti.
Vorremmo dimenticare o ricordare il compagno di strada che come un confessore ti riversava la manchevolezza del suo amore, e che però quell’amore poi ha ripreso. Voleva un amore a misura, eppure quell’amore era la sua misura. Non lo capì mai. E rimase a recitare la parte in commedia di ciò che non è. Fragile come l’acqua. Slegato. Come tutti.
Vorremmo dimenticare o ricordare chi non s’è preso cura di noi, quando noi avevamo bisogno di quella cura. Perché eravamo in vista, col cuore rosso al vento, e senza difesa. Allora avremmo voluto il cavaliere col mantello a chinarsi “sine compendio” su di noi, un bacio gentile e via… senza nulla in cambio. Gratuitamente. Come l’amore.
Vorremo – ammettiamolo – poterci scoprire fragili, senza forza esibita, coltivata; fragili come uomini. Senza corsa al bastone più duro. Alla mazza più ferrea. E vorremmo essere di terracotta in una nave di anfore. Abbiamo per questo paura del ferro e della sua ruggine.
Eppure, anche fragili, sì, scioccati dal vento, corriamo insensatamente sgomitando a destra e manca, alleati mortali contro qualcuno, insieme per una meta piccola e banale, tra il sangue dei denti rotti di chi era per strada, e il “vomito dei respinti”: e non ci intestiamo fragilità come non ci intestiamo sconfitte. Fallire è, come il fragile vivere, un segno di follia. Noi no. Non siamo duri e non possiamo fallire. Fino al prossimo pianto tra le braccia di mamma che non chiede, tra le braccia di mamma che non tradisce. Come in una richiesta di assoluzione per la vita che non sappiamo vivere. Perché il treno della carezza lo scorgiamo solo quando fischia dalla stazione ventura, e non sappiamo correre, senza fiato. Ma solo rimuginare.
Non so se c’entri la Pasqua, il ricordo di un poeta medico con cui conversare era dolce e mastodontico, o l’età che avanza, ma mi ritrovo in questa Pasqua a rivedere la consistenza della fragilità, la sua forma sconfinata, e il suo cuore tenero.
Torno col pensiero alle tovaglie di lino stese nella brezza della campagna, all’azolo, al suo profumo di buono e alla semplicità che non si disperdeva in un gorgheggio… Torno. E se “torno” vuol dire che sto percorrendo un “nòstos”, e i viaggi all’indietro, sono sempre viaggi di un’altra età. E’ Pasqua e mi scopro per la prima volta non più giovane. Auguri, dunque…
Giacomo Bonagiuso
Rubrica “La Domenica Nel Villaggio”
AUTORE. Giacomo Bonagiuso
Grazie per averci ricordato la tenerezza, la poesia e un grande Castelvetranese come il dottore Di Maio.
Pur compresa la vena, necessariamente, poetica del periodo pasquale, “tra le braccia di mamma che non chiede, tra le braccia di mamma che non tradisce” non lo si può sottoscrivere. Soprattutto le mamme siciliane, sanno, o spero sapevano, essere di un protezionismo egocentrico tanto esagerato quanto traditore, al quale solo la fuga, si proprio fisica, geografica, si poteva contrapporre con efficacia. Ma ripeto, comprendo il necessario romanticismo.