Una promessa fatta, tra le lacrime, quindici anni fa, di rinnegare il padre se fosse finito ancora in galera per mafia, la sofferenza portata dentro come un macigno, i cavalli, il teatro equestre e quella parola difficile da pronunciare e sopportare: mafia.
Giuseppe Cimarosa, 31 anni, di Castelvetrano, la città del superlatitante Matteo Messina Denaro, è oggi un uomo ribelle, pronto a riscattarsi. Lui e la sua famiglia. Suo padre è Lorenzo Cimarosa, imprenditore edile di Castelvetrano, arrestato nell’operazione “Eden” del dicembre scorso. Oggi è un dichiarante. Ai magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo sta raccontando fatti e misfatti del sistema mafioso che gira attorno a Messina Denaro. La scelta del “giro di boa” è avvenuta quando Cimarosa ha messo piede nel carcere Pagliarelli di Palermo e gli tornarono in mente cosa suo figlio Giuseppe gli disse quindici anni addietro.
«Quelle mie parole sono servite – spiega Giuseppe Cimarosa – ho sempre voluto un padre diverso, non mischiato in queste storie di mafia». Eppure la sua famiglia – legata da una stretta parentela con i Messina Denaro (la sua nonna materna è sorella della mamma del superlatitante) – in questi anni è stata incastrata nel “sistema”.
«Mio padre lavorava e parte degli incassi era costretto a consegnarli per il superlatitante – spiega Giuseppe – e la società dove io e mio fratello eravamo soci, era piena di debiti». Soldi e affari nello scenario di una città «dove – spiega ancora Cimarosa – molte persone vedono Matteo Messina Denaro come il salvatore di tutto». La scelta del padre di collaborare, la sua pubblica posizione contro il superlatitante («è un pazzo scellerato») e il sistema che non ha mai digerito lo hanno reso oggi un uomo solo sulle tracce di un’antimafia che gli è costato il volta spalle dei parenti più stretti.
«La solitudine che provo è strana – spiega – mi manca il sostegno delle istituzioni e delle associazioni contro le mafie. Le ho cercate io e, tranne qualche pacca sulla spalla, sono scomparse. È forse vana la scelta di mio padre di collaborare? E quella mia di gridare contro la mafia, condividendo ciò che sta facendo oggi mio padre?». La solitudine si impasta alla paura. Lui, insieme alla sua famiglia (la mamma Rosa, il fratello Michele e la nonna materna Rosa Santangelo), ha rinunciato alla protezione dello Stato. E nel maneggio a fianco la loro villa continua la sua attività di teatro equestre nel centro “Equus”: si provano gli spettacoli, si praticano le sedute di ippoterapia, molti giovani del Belice gli stanno a fianco.
«Alcuni sono pure andati via dopo la scelta di mio padre – spiega – ma altri nuovi ne sono arrivati. Io spero in una vera rivoluzione culturale per sconfiggere la mafia. E il teatro, insieme a tutte le altre forme artistiche, devono aiutarci in questo percorso. Non voglio sentirmi un Don Chisciotte e neanche pensare che chi ha scelto di stare dalla parte dell’antimafia in Sicilia, alla fine, faccia solo finta di lottare». Parole che finiranno in una lettera di denuncia che Cimarosa renderà pubblica nella prima decade di novembre. Intanto si fanno le prove dello spettacolo ispirato alla Trinacria che la sua compagnia porterà alla Fiera del cavallo di Verona. Per mettere in scena lì un pezzo di Sicilia che profuma di arte e bellezza.
di Max Firreri
per Avvenire