Un ricordo indelebile. Come una macchia di vernice impressa sui vestiti: «Come dimenticare quei momenti?» s’interroga il magistrato Massimo Russo che, quest’anno per il 30° anniversario della strage di Capaci, ha scelto di non partecipare alle commemorazioni, «troppo infarcite da pura retorica – dice – occasione per molti di mettersi in prima fila. E questo è diventato particolarmente odioso». Originario di Mazara del Vallo, 60 anni compiuti, Massimo Russo ha la fama di tagliare carne e ossa. Non usa mezzi termini. Lui le stragi del ’92 li ha vissute da giovane magistrato: «Il 23 maggio 1992 avevo lavorato tutto il giorno in Procura a Marsala – ricorda – e tornai a casa dei miei genitori a Mazara del Vallo. Stanco, mi distesi sul divano e guardando la tv, a un certo punto, quella notizia mi gelò. Alla voragine di Capaci corrispose subito un vuoto nella mia mente…». Momenti di preoccupazione e paura che accompagnarono i giorni a seguire di Russo ma anche di tantissimi suoi altri colleghi.
Trent’anni in Magistratura, intercalati da un’esperienza politica da Assessore regionale alla salute che gli è costata di ripartire, in silenzio, lì da dove si era fermato. Tornare a indossare la toga, stavolta da magistrato di sorveglianza a Napoli, lontano dalla Sicilia, per poi tornare in terra di mafia ma stavolta alla Procura dei minori. «Questi 30 anni hanno scandito la mia esperienza professionale – dice Russo – hanno segnato la mia coscienza civica. I primi 20 anni sono stati quelli di impegno massimo. Noi giovani magistrati ci rendemmo subito conto che con le stragi c’era stato passato il testimone della lotta alla mafia. E la battaglia si era fatta più dura: messaggio resosi chiaro con la morte di Borsellino». L’esperienza in Procura a Marsala a fianco Paolo Borsellino, poi, dal ’94 al 2007, l’impegno in Direzione Distrettuale Antimafia a Palermo, occupandosi dei fatti di mafia del suo territorio. Una coincidenza che gli ha permesso di affrontare a muso duro boss e gregari del Trapanese, di ottenere decine di condanne all’ergastolo: «Con le armi del diritto abbiamo affermato il potere dello Stato, la forza della democrazia – dice ora Russo – noi abbiamo combattuto e battuto la mafia corleonese, quella stragista. L’impegno, la determinazione sono stati pari alla forza, al clamore dei due grandi attentati che hanno segnato la mia vita professionale e quella di tanti altri giovani colleghi».
Lo Stato ha vinto la battaglia? «Ha reagito come meglio non poteva, seppur con tanti limiti – racconta Massimo Russo – lo Stato non ha vinto del tutto ma ha disarticolato Cosa Nostra che non è più quella che abbiamo conosciuto. Ho sempre creduto che andava combattuta la mafia militare, cioè togliere “soldati” e armi. Ma attenzione, la partita non è ancora chiusa», ricorda Russo. L’intreccio tra mafia e politica ha segnato un nuovo cammino per la criminalità: meno rumore di armi da fuoco e più affari silenziosi: «A fronte di un impegno della Magistratura c’è stata parte della politica che non è stata capace di scegliere uomini perbene, capaci di riprendere in mano le sorti del territorio», afferma Russo.
I 30 anni dalle stragi è il tempo della riflessione saggia e profonda. E Russo, a meno di dieci anni dalla pensione, si auspicherebbe «commemorazioni più sobrie». E ricorda ancora: «In tutto questo abbiamo perso di vista il dolore dei familiari di tantissime persone appartenenti a Forze dell’ordine, Polizia penitenziaria, imprenditori, politici, gente che si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Non è forse lo stesso dolore?». Dieci anni dopo la morte, la prima cerimonia commemorativa per il giudice Giovanni Falcone al Palazzo di giustizia di Palermo, la si deve proprio a Massimo Russo, allora Presidente dell’Anm distrettuale: «Trovai scandaloso che il giudice Falcone non veniva ricordato nel suo luogo di lavoro».
Oggi deve essere soprattutto tempo di speranza. Che fare? «Continuare a investire sulla leva educativa – dice Russo – lavorare con le scuole sulla memoria e sul ricordo, così si crea il cittadino. Ma al contempo non bisogna creare rendita di posizione. L’antimafia non può essere appannaggio di alcuni, ma deve essere patrimonio collettivo che dobbiamo coltivare. Bisogna combattere e isolare le frange di persone che danno patentini di antimafia, che conferiscono lascia passare». Ora l’esperienza alla Procura dei minori ha permesso al magistrato Russo di allargare la visuale a settori fondamentali di una società: «Una posizione privilegiata per osservare ambienti e luoghi di marginalità sociale ed economica, dove è facile che cresca la cultura della illegalità. Con amarezza affrontiamo storie di famiglie che si disgregano, assistendo anche alla carenza di interventi di welfare che i Comuni non garantiscono», dice Russo. Altre pagine di una Sicilia chiaro-scuro che riesce ancora ad appassionare magistrati siciliani come Massimo Russo.

(foto: lavocedinewyork.com)
Con Massimo Russo ho condiviso negli anni del post stragismo mafioso parecchie esperienze professionali che ci hanno fatto comprendere la vera sensibilità civile e sociale di entrambi, votata all’autentica ricerca della verità giudiziaria.
Particolarmente significativa il suo pregmatismo professionale, quando dalla DDA ritenne convincenti le mie relazioni illustrative sull’operato di un falso pentito che lo condussero nel 1999 ad iscrivere sul registro degli indagati costui per calunnia.
Ha testimoniato innanzi all’AG di Caltanissetta la falsità dell’attribuzione di uomo d’onore mafioso a quell’inquinatore di pozzi (così definito dal Dr. Paci) la cui storia giudiziaria si dovrà riscrivere con coraggio se si vuole raggiungere la verità di quegli anni bui intrisi di depistaggi pilotati.
Mi auguro che lo Stato voglia chiudere quella pagina su cui venga scritta la verità vera, finalmente dopo trent’anni con coraggio e determinazione.
Qualità certamente riconoscibili in Massimo Russo.
Avv. Franco Messina