[di Nicola Basile] Giovedì 25 gennaio, presso il Teatro Selinus di Castelvetrano, è andata in scena la pièce teatrale “Interrotte”, abilmente diretta dal Giacomo Bonagiuso e magistralmente interpretata dai giovani del suo laboratorio teatrale.
Abilmente, magistralmente. Due avverbi usati non a caso dal momento che, sì, la regia di Bonagiuso e l’intrrpretazione dei giovani “amatoriali” attori hanno tenuto incollati gli spettatori – me compreso – del Teatro, per altro gremito, per tutta la durata dello spettacolo.
Foto di Leonardo Alagna
Il tema affrontato non era certo di facile approccio: gli istituti di terapia e cura delle turbe del comportamento e dell’orientamento sessuale tra fine Ottocento ed inizio Novecento rappresentano il luogo, fisico ancorché metaforico, di tutta una serie di problematiche e “devianze” reputate malattie dalla scienza dell’epoca e tutte confluenti in un unico calderone (sociopatia, omosessualità, disturbi della psiche vari, persino atteggiamenti rivoluzionari…). Le attrici, una ad una, hanno riversato addosso a noi spettatori le loro tragiche, disperate storie lasciandoci un senso di inquietudine che, in un crescendo incalzante, è culminato con l’ingresso in scena del sedicente dottore e con le sue violenze, fisiche e psicologiche, perpetrate a danno dei pazienti.
Ma il filosofo e regista Bonagiuso, esperto conoscitore dei meandri della mente umana, sa che il vero dramma che si sta mettendo in scena non è tanto (o soltanto) quello fisico e neanche quello psicologico: c’è un livello più profondo ed è quello che riguarda la parola.
Foto di Leonardo Alagna
Una parola che, lungi dall’ottemperare alle sue consuete funzioni, non svela, copre, allontanandosi così dalla verità: nel momento in cui la parola vuole tessere la narrazione della pazzia (o quella che dai più, dai sedicenti normali viene definita tale), ne tradisce il senso; la pazzia narrata, ordinata, ingabbiata nelle maglie della parola non è più pazzia, ma la si è ricondotta alla quieta, innocua e indifferente “normalità”.
Come diceva De Gregori: “I matti vanno contenti, sull’orlo della normalità, come stelle cadenti, nel mare della Tranquillità” (I Matti).
Forse, allora, è meglio tacere ogni parola e dare solamente espressione alla parola “muta” del corpo e alla sua comunicazione non verbale: ecco, dunque, che i corpi degli attori, sotto il peso di luci cupe e musiche a volte assordanti (eccezion fatta per la commovente ed incisiva interpretazione di “Ti regalerò una rosa” di Simone Cristicchi), si muovono in maniera sincopata, interrotta appunto; è il paradosso: si voleva parlare di pazzia e si è finiti per dare voce al corpo, perché solo così, forse, si può esprimerne il senso. Forse. Forse perché magari non è necessario dare un senso a tutto ed il finale tragico, asfittico e senza speranza ne è, secondo me, una dimostrazione; allora forse davanti ad ogni forma di diversità sarebbe meglio tacere ed accogliere, ritrarre la lingua ed allungare le braccia, stare sull’orlo della normalità, a quei margini di derridiana memoria dov’è possibile un “linguaggio” altro.
Per me che scrivo è stato particolarmente significativo rivedere il prof. Bonagiuso all’opera dopo diversi anni su temi così diversi, ma accomunati dal tema della parola: da Ordet di Dreyer ad “Interrotte”, un cammino contro il (fallo)logocentrismo occidentale?
Testo di Nicola Basile
Foto di Leonardo Alagna
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Lo spettacolo più bello che io ho potuto vedere al Selinus quest'anno. Complimenti agli organizzatori. Bravissimi.