Un omaggio al padre Beppe Alfano, ucciso nel gennaio del 1993, alla sua vita e alla sua passione per il giornalismo. Di politica c’è davvero poco nel libro di Sonia Alfano, edito da Rizzoli. C’è invece una storia, rimasta un mistero per tanti anni, che però sembra avere una possibilità di svolta. Una storia raccontata da chi allora aveva ventidue anni e oggi, da Presidente dell’Associazione nazionale familiari delle vittime di mafia e da europarlamentare, continua a pretendere la verità.


Nel libro si legge: “Non ne parlava bene, Beppe Alfano, della sua cittadina. D’altronde non poteva farlo: quello che raccontava era la verità”. Oggi il giornalista che promuove il territorio è ben gradito al potere rispetto a chi semplicemente lo racconta. Qual è secondo lei lo stato di salute dell’informazione in Italia?
Anziché essere il cane da guardia della democrazia, è diventata il barboncino di compagnia del potere. Ormai i giornalisti non fanno più domande, si limitano a mettere il microfono davanti ai potenti di turno, con conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Mio padre scriveva tantissimo e raccontava quello che accadeva a Barcellona. E’ vero, non poteva scriverne bene, soprattutto se consideriamo che l’anno prima della sua morte c’erano già stati sette morti ammazzati. Ma raccontare la verità non significa parlare male, significa fare una fotografia della realtà e farla vedere ai cittadini.

Beppe Alfano, di notte dal salotto di casa, col binocolo osservava dei movimenti strani, sempre allo stesso orario. Aveva capito dove si nascondeva Nitto Santapaola?
Santapaola alloggiava in un appartamento a trenta metri da casa mia, praticamente di fronte. Mio padre aveva raccontato tutto alle forze dell’ordine, soprattutto ad Olindo Canali che, secondo me, lo ha tradito. Curiosamente, dopo la morte di mio padre, la casa e i locali in cui era Nitto Santapaola furono sottoposti ad intercettazione, per cui i Carabinieri, i Ros, lo Sco e il Sisde sapevano perfettamente che quella persona era Santapaola e, a mio parere, avrebbero potuto evitare di fare ammazzare mio padre. Quando i vertici del Ros, dello Sco e del Sisde furono ascoltati, qualche anno fa, ammisero davanti alla Procura della Repubblica di Messina che sapevano perfettamente che Santapaola a quella data era presente a Barcellona e che c’erano anche loro, ma il loro obiettivo non era catturarlo. Hanno dichiarato che il loro obiettivo era fargli mancare il terreno sotto i piedi, per costringerlo ad allontanarsi da Barcellona.
Ma mentre loro facevano questi giochetti, mio padre moriva.

Dopo la morte di suo padre qualcuno vi consigliò di andar via perché non eravate “compatibili con la cittadinanza”.
Non era un qualcuno qualsiasi. Era Olindo Canali, il pubblico ministero che coordinava le indagini sulla morte di mio padre. A breve verrà rinviato a giudizio per falsa testimonianza, avendo agevolato Cosa nostra che poi ha eseguito l’omicidio. Oggi, sembrano davvero le parole di un irresponsabile. Quale rappresentante delle istituzioni può dire alla famiglia di una persona che è stata uccisa ‘andatevene voi perché non siete ben accetti’? Io credo invece che avrebbe dovuto favorire tutte le condizioni ambientali per non fare andare via noi e mettere in carcere chi aveva compiuto quell’omicidio. Mio padre è morto di venerdì, l’8 gennaio. Olindo Canali diede questo “consiglio” a mia madre il lunedì successivo. Il mercoledì dopo io chiesi il nulla osta alla scuola dei miei fratelli e il 15 gennaio, lo stesso giorno in cui arrestarono Totò Riina, ci trasferimmo a Palermo. Non perché lo Stato ci avesse aiutato a trovare un posto, ci dissero semplicemente di andare e di arrangiarci. Noi scegliemmo Palermo perché lì c’erano dei parenti di mia madre.

Nel libro vengono descritti anche gli incontri che, da europarlamentare, ha avuto la possibilità di fare con i mafiosi nei reparti 41 bis delle carceri. Chi ha incontrato?
Ho avuto modo di parlare con Graviano, Totò Riina, Provenzano, i Lo Piccolo, Santapaola…
Riina mi chiese se io fossi dello schieramento di Berlusconi. Gli risposi di no e lui in siciliano mi disse: “Berlusconi a nuatri ni futtì a tutti”, riferendosi a lui e alla popolazione carceraria. Santapaola all’inizio non mi aveva riconosciuto, oggi sta molto male e appena ha capito chi ero non ha voluto parlarmi, un po’ come un’istantanea di questo Paese in cui i ruoli si invertono: il carnefice diventa vittima e la vittima viene rappresentata come carnefice. Molto raramente ammettono le loro colpe e quasi tutti si dichiarano innocenti. Nel libro cito Ganci, che mi disse: “Onorevole, io sono vittima di un errore giudiziario”. L’ho guardato in faccia e gli ho detto: “Ganci, ma lei ha quarantuno ergastoli. Tutti errori giudiziari?”. Insomma, nemmeno Berlusconi arriverebbe a tanto. Mi ha stupito invece la profonda conoscenza che i detenuti hanno della nostra carta costituzionale e del codice di procedura penale che sembra conoscano meglio degli avvocati.
Che cosa le ha detto Bernardo Provenzano?
È stata l’unica persona che non si è lamentata. Ha sottolineato il fatto che stava bene e che non gli mancava niente. “Non ho nulla di cui lamentarmi” ha detto.

Egidio Morici
Per L’isola del 04/06/2011

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