Palermo sarà la Capitale Italiana della Cultura per il 2018, la notizia ormai è nota a tutti e gira da un paio di giorni. E sono le parole di Sofia Muscato, una ragazza palermitana, che meglio rappresentano il senso di questa meravigliosa notizia:
AUTORE. RedazioneI “Vu Cumprà” qui ti chiamano “Cuscì”.
Le Chiese si fondono con le Moschee e il Kebap con le panelle.
Via Maqueda è spagnola ma la abitano indiani, africani e arabi.
Via Lincoln, invece, sembra inglese ma è tutta dei cinesi.Se giri l’angolo,
però, tra una lanterna rossa e l’altra,
trovi il Teatro dei Pupi,
un teatrino popolare e un negozio di calìa e semenza
che è la fine del mondo.Il parcheggiatore, sotto casa mia, viene dal Bangladesh ma indossa una coppola, canta “Ciuri ciuri” e mangia cannoli.
La stanza blu, piena di iscrizioni arabe saluta, da lontano, la stanza delle ceramiche, piena di mattonelle variopinte;
un harem sconosciuto tende la mano a un vecchio quanat.
La Cappella Palatina si compiace di esser d’oro e guarda con affetto la Magione;
la Zisa si veste di giardini e schiaccia l’occhio a Villa Giulia.
La Palazzina dei Cinesi tifa per il Palermo.
Lo Spasimo non ha tetto. Solo stelle e jazz.
In compenso lo sfincionaro ha il giusto sound dentro una lapa.
Un neomelodico passa con lo stereo a tutto volume davanti il Politeama e, a Piazza Verdi, trasmettono la Boheme su un maxi schermo.Tra le vie che portano al Massimo trovi taverne, marranzani e fiori di plastica e Casa Professa con i suoi dipinti sorge dentro un vecchio mercato popolare tra cassette di Forst e stigliola.
E’ Palermo: eternamente sospesa tra cielo e inferno.
Città di contraddizioni e coerenza, di sfarzo e miseria, di fumo e profumo.
E’ Palermo e Dio solo sa se, in quest’epoca dove si ergono muri e il filo spinato è un abbraccio negato all’umanità, Palermo non si meritava di essere Capitale Italiana della Cultura 2018.Perché potete dire tutto della mia Palermo, ma per quanto possa presentarsi sdirrupata, mendicante e misera, questa città, elegante nell’animo, non ha mai chiuso le porte in faccia a nessuno.
Non le ha chiuse all’extracomunitario, non le ha chiuse all’islamico, non le ha chiuse né agli europei né agli americani.
Non le ha chiuse nemmeno a me, che parlavo la lingua dei monti e mi sono trovata a dover imparare il mare.Palermo Capitale della Cultura 2018.
Sì. Ce lo meritiamo.
E ogni tanto, perché no, facciamoci un applauso.
Bellissima descrizione di Ma Dif. Potrei fermarmi ai complimenti che merita tutti, ma un pignolo come non può che rilevare un neo : “La stanza blu, piena di iscrizioni arabe saluta, da lontano, la stanza delle ceramiche, piena di mattonelle variopinte”. Quella della stanza blu “piena di iscrizioni arabe” (via Castro), subito indicata come “la moschea blu di Palermo” è una bufala, o meglio, una cantonata colossale di cui (ahi quanto è brutto parlare di sé, ma è funzionale alla spiegazione) mi accorsi e scrissi subito: sembrava arabo ma non riconoscevo una singola lettera, mancavano gli onnipresenti e riconoscibilissimi “Allah” e “Mohamed”. C’era anche una pseudo Tugra turca (Tugra = esercizio calligrafico che riporta il nome e i titoli di un sultano)… Dopo una breve indagine in cui coinvolsi anche un’associazione turca di appassionati di Tugre, ebbi la conferma che l’arabo non era arabo e la tugra era falsa: si trattava di grafemi pseudo arabi, o meglio pseudo turchi eseguiti a decorazione di una “stanza alla turca”. Nel settecento, oltre alla più nota moda delle cineserie, nacque anche quella delle… turcherie. Tante stanze, soprattutto di palazzi nobiliari, vennero decorate alla cinese; ma ci furono anche esempi di stanze decorate alla turca. Il massimo esempio di decorazioni alla cinese lo troviamo a Palermo nella palazzina Cinese della Favorita; gli esempi di stanze turche sono meno frequenti e meno eclatanti – ma ci sono, e in non ricordo più quale villa nel nord-est d’Italia ci sono sia una stanza cinese che una turca. Come nel caso della palazzina Cinese, in cui gli ideogrammi sono fasulli, anche questi grafemi non significano niente: chi decorò la stanza blu non conosceva né l’arabo né il turco (come si sa, la Turchia usò l’alfabeto arabo fino alla rivoluzione di Mustafa Kemal detto “Ataturk”). Ecco il neo… e mi chiedo come mai questa cosa, che fu poi finalmente sconfessata (ne parlavo un paio di mesi fa con l’amico Gaetano Basile, grande palermologo, e ci facevamo le risate sopra) sia ancora in vita. Cercasi chirurgo.