[di Giacomo Bonagiuso] La riconoscenza è un sentimento da rivalutare. Un sentimento che abbiamo dismesso con la foga di chi, sparecchiata la tavola dopo aver mangiato, senza concedersi un momento di ripensamento, di ringraziamento, di memoria, corre in cerca delle ultime notifiche su whatsapp e facebook, in preda alla fretta e alla corsa, come se arrivare fosse l’unico punto possibile in un tempo dedito al goal e all’etica del risultato. A prescindere dalla felicità…

Sì, la riconoscenza è un sentimento da rivalutare, se non altro perché – evocando la lentezza – accede a quell’area della vita che ha a che fare proprio con la memoria. E la memoria è un ordito lento, non una sbrigativo “salva e condividi”. Leggiamo spesso che questo è un tempo privo di memoria, eppure è un tempo in cui possiamo ricostruire tutto degli ultimi 20 anni con un semplice click. Così si incorre nel paradosso che il tempo più archiviato, mediato, conservato, catalogato, della storia dell’uomo, è in realtà quello più povero di memoria. Certo, in realtà la memoria non coincide con il possesso dei dati, ma con una relazione ad essi, un legame, con una loro interpretazione, insomma… I dati sono parti che contribuiscono a chiarificare le idee e le posizioni: e se è vero che mai come oggi quel che viene detto, rimane conservato e facilmente rintracciabile, è parimenti vero che la fluidità di ogni apparato epistemico, morale, culturale e – ahimè – relazionale, determini una rimozione quasi immediata della memoria stessa, in specie di quella memoria umana “a breve emivita”, ovvero quella emotivo-sentimentale. S’è inaugurato, nel recente ventennio, senza alcuna riconoscenza, il fast-food delle emozioni, delle relazioni e dei connessi sentimenti. Ed il fast-food non prevede legami, ma “offerte speciali” per riempire lo spazio di un pranzo: veloce, appunto.

Mentre i motori di ricerca trovano e scovano ogni dettaglio dell’esistente, ogni documento viene digitalizzato e per ciò stesso storicizzato, anche la nostra ricerca subisce lo stesso destino dei “dati”, e finisce per servire alla costruzione di algoritmi sempre più affidabili sui nostri usi, costumi, sulle tendenze, sulle opinioni e sulle relazioni…. Alla narrazione per scrittura si va gradatamente sostituendo una narrazione per immagine, laddove nel termine immagine, è da includere anche la scrittura non argomentativa, anapodittica, i 180 o poco più caratteri del breve tweet, non già il dipinto, che con tutti i suoi livelli di velatura prelude a ben altra complessità…. Vedere, ed in modo immediato, sembra essere tornato il senso dell’evidenza, dell’incontestabilità. Così era già per Aristotele che alla vista conferiva, già nella Metafisica, il primato tra i sensi? “Tutti gli uomini per natura tendono al sapere, segno ne è l’amore per le sensazioni; ed infatti essi amano le sensazioni e prima tra tutte quella della vista perché meglio delle altre ci fa conoscere la differenza tra le cose”. O a quel “conoscere le differenze tra le cose” è da attribuire già una importante evidenza che il tweet breve o la foto immediata non hanno?

Eppure nel ricordare l’incipit di un’opera fondamentale del sapere contemporaneo, non mi sono rivolto alla vista, ma all’udito. Quelle pagine di studio risuonano in me, come una nota in una cassa di risonanza. Non ho visto Aristotele, ma ho ascoltato Aristotele. Differenze. Già. Come quelle che tornano tra la cultura Occidentale, che vuole “vederle” le differenze, e quella Giudaico-Cristiana dell’ascolto. La fondazione uditiva della relazione con un Dio invisibile è la parola: e non che i Greci non avessero o non amassero le parole, ma esse, “logoi”, furono piuttosto il segno di un raccolto, di un possesso, quindi, di una ricapitolazione. Anche quando, con Socrate, il logos si fece dia-logos, si trattò sempre di un’intesa già determinata a monte, dove la verità non deriva da elisione reciproca, o da reciproca scoperta, ma da una antitesi funzionale al rafforzarsi della tesi. La verità è sempre e comunque quello che importa. Oltre le persone.

Nell’ebraismo furono tolte le potenze del visivo e del visibile dal rapporto tra uomo e Dio, cui in primis fu tolto il volto come visibile e quindi il nome come dicibile, tramite il nascondimento delle vocali (il nome di Dio ebraico è un tetragramma consonantico senza alcuna vocale); allora, il rapporto con Dio si presentò come un ascolto, non di un nome, ma di una parola che rivelandosi tornava a scomparire.

Hanno ricamato in molti sulla suggestione del ri-velare come velare di nuovo, tra ebraismo e grecità. Peccato che in ebraico la parola suoni in modo molto diverso: “galuth” in ebraico è rivelazione, ma essa, anche, significa andare in esilio. Rivelare quindi è la stessa parola di andare in esilio. Interessante. Come a dire che chi intende rivelarsi deve uscire fuori di sé ed essere disposto ad abbandonare il proprio, la radice, l’identità e farsi viaggiatore, errante, in cammino.

Sulla base di queste piccolissime suggestioni riprendiamo il filo interrotto della riconoscenza. Se non vado via da me stesso quando incontro l’altro ma pretendo di restare sempre e soltanto nelle mie mura, con la mia struttura, e il mio dogma, come potrò riconoscere qualcuno come diverso? E come potrò fare patrimonio di questa diversità? Nasce così da un tempo profondo e doloroso, arcaico e antropologicamente potente, quell’incrocio di simboli e di valori che dovrebbe indurci nella tentazione del ripensamento.

Ripensare alla riconoscenza come un esodo. Riconoscere che tutti abbiamo bisogno d’altro e d’altri. Riconoscerci deboli, fragili, mai arrivati a nulla, pur quando ci sentiamo potenti per gli ormoni dell’età o per il sì delle masse. In quest’apertura nasce il seme solidale, di una solidarietà non a progetto, non una tantum, occasionale, non creata ad arte per comunicarla, ma di una solidarietà piena tra persone che si riconoscono e si vedono in uno stesso processo storico e biologico. Siamo quello che mangiamo, quello che leggiamo, quello che scriviamo e descriviamo e persino quello che amiamo.

La riconoscenza è l’antidoto al tradimento, alla meschinità, a chi sfrutta la relazione come un tubetto di dentifricio convinto d’essersi preso tutto quel che poteva, a chi non comprende che non aver donato nulla è l’unica tragedia di una vita spesa soltanto a seguitare le istanze del biologico e dell’utile. Ecco perché la mancanza di memoria ha il suo centro laddove non si coltiva la riconoscenza. Nel riconoscimento già Platone vedeva il senso dell’umanità.

La riconoscenza tuttavia è la categoria sfuggente alle nuove generazioni. Proprio la nostra generazione (i cinquantenni/quarantenni in bilico tra due epoche infami, la fine del Novecento e questo Duemila che ancora non ha un volto suo, non hanno ancora saputo creare nulla di proprio) ha fatto l’errore di devastare il costrutto scolare (educativo in senso lato) in una miriade di stilemi senza alcuna valenza… Per evitare che il maestro sbagliasse, o potesse sbagliare, si è preferito aggirare l’errore tramite quiz a quantità, che occultano tutta la fatica della nozione stessa, esaltandola, invece, come un risultato. Negli invalsi e nei 5000 quiz inutili che devono studiare per far i medici (magari non interessati al malato ma alla malattia) v’è l’incipit del fast food… I nostri figli danno troppo per scontato: moda, telefonino, abiti griffati, e sono spesso così scontatamente infelici in questo tutto da essere loro i primi infetti della mancanza di memoria, e di conseguente irriconoscenza.

I nostri cari giovani, sì, che forse cambieranno il mondo, ad oggi sono spesso i primi a non coltivare nessuna memoria, soltanto immagine. E l’immagine è pornografica, se indistinta dalla sua capacità di emozionare o di connettere. A questo sguardo basso, immemore, corrisponde un rifiuto della tenerezza, vista come debolezza, una onnipotenza irresponsabile, una fondata noja e una ricerca spasmodica di centralità a patto che raggiungerla sia facile, revocabile, de-responsabilizzante. Non li abbiamo aiutati molto regalando cose e non tempo. Quiz e non percorsi in cui il senso del viaggio è viaggiare, senza arrivo. Dovremmo tornare ad essere voce, a lasciarli un po’ in esilio, fuori dal luogo dove tutto è loro, ma verso casa, in avanti. Non indietro. La riconoscenza è quel che questo tempo ha perso. Non è tempo sprecato tornare ad invocarla. Anzi a costruirla. Per loro, e magari anche per noi stessi. Di riconoscenza abbiamo proprio bisogno: principalmente di nutrirla.

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