Inverno di fine anni 80, forse dei primi degli anni ’90. La scena di un summit presente Matteo Messina Denaro, il super boss oggi ricercato, latitante dal 1993, si svolge all’interno dei locali di una delle tante finanziarie che all’epoca “invadevano” la città di Trapani.

Si tratta della Fimepo, gli uffici sono in una strada centrale della città, in via Osorio, a pochi metri dall’ingresso del Palazzo di Giustizia. Con Matteo Messina Denaro, oltre ai titolari della finanziaria, la Fimepo, c’è anche Antonio D’Alì, non è ancora diventato senatore all’epoca, ma è certamente uno che conta in città.

La riunione è raccontata da un pentito, Giovanni Ingrasciotta che accompagnò Matteo Messina denaro da Castelvetrano, la sua città, a Trapani. Nessuno ancora lo sapeva, ma la notizia era già conosciuta al giovane rampollo della più importante famiglia mafiosa trapanese, quella finanziaria stava rischiando il crac, e la cosa avrebbe reso povera, come avvenne, tanta gente, ignari risparmiatori che allettati da offerte di guadagni superiori a quelli garantiti dalle banche, avevano affidato alla Fimepo i loro averi.

Certamente Matteo Messina Denaro non si trovava lì per una “difesa sociale”, niente affatto, racconta Ingrasciotta, in un verbale di una decina di pagine, firmato dopo avere risposto alle domande del pm Andrea Tarondo, che in quella finanziaria c’erano anche i soldi, tanti soldi dei Messina Denaro, e quel denaro non lo volevano perdere o comunque dovevano far capire che a loro quella truffa non poteva essere fatta. Truffare i Messina Denaro significava andare incontro a morte certa, ma i D’Ambra, Salvatore e Lucio, padre e figlio, titolari della finanziaria, riuscirono a salvarsi, Matteo Messina Denaro quei soldi sarebbe riuscito a recuperarli, grazie alla garanzia che a favore dei proprietari della finanziaria sarebbe stata portata personalmente dal senatore D’Alì. Tanto che quando Matteo Messina denaro fece per andarsene, Ingrasciotta ricorda che mosse un segno verso D’Ambra senior, come per dire stavolta vi siete salvati.

Il verbale oggi ha fatto ingresso nel processo che con il rito abbreviato si svolge a Palermo e dove il senatore D’Alì, assente all’udienza, è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, proprio per via dei rapporti, non di vittima come dice lui, ma di estrema complicità che avrebbe avuto con i suoi campieri, don Ciccio e don Matteo Messina Denaro, i padrini della mafia del Belice.

Rapporti cresciuti nel tempo, appoggi che Matteo Messina Denaro ha usato per diventare oggi il capo di una vera e propria holding del crimine, con le mani sporche del sangue di tanti morti ammazzati oggi guida diverse società imprenditoriali, quelle fino ad ora confiscate rappresentano solo la punta dell’iceberg, società nei settori dell’edilizia, del commercio, del turismo. Il pm Tarondo ha chiesto al giudice di potere sentire in aula Ingrasciotta, la decisione verrà presa il 30 novembre prossimo alla ripresa del dibattimento. In quel verbale Ingrasciotta (che nel 1996 doveva essere ucciso per ordine di Messina Denaro ma al suo posto morì uno dei sicari, Giuseppe Panicola, ammazzato per errore dal padre, Vito, un politico, consigliere provinciale della Dc, che aveva ricevuto l’ordine di eseguire dai Messina Denaro quella sentenza di morte, direttamente dal patriarca Francesco che era il suo consuocero) racconta anche del sostegno elettorale che la mafia garantì a D’Alì al suo esordio in politica nel 1994, tra i particolari riferiti quello che addirittura i boss avevano incaricato alcune persone di presidiare cartelloni elettorali per evitare che i manifesti del candidato D’Alì potessero essere coperti da altri.

autore. Rino Giacalone
per www.malitalia.it

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