Non c’è niente di più sgradevole dell’esser costretti a celebrare date e anniversari, ad aprire a comando la chiavetta della commozione o della retorica perché c’è un “compitino” da fare e non ci si può sottrarre a questa incombenza..
Non è questo il caso del 15 gennaio, l’anniversario – il quarantaduesimo! – di un terremoto che ci portiamo dentro, avvenimento non concluso né storicizzato, ma piaga aperta poiché quell’ avvenimento, divenuto nell’immaginario collettivo nazionale simbolo di ritardi e inefficienza, mise in luce mali strutturali che non stanno nelle viscere precarie della terra, ma appartengono alle vicende della gente e al secolare assetto della loro realtà di convivenza.
Lo scriveva Giuseppe Carlo Marino pochi giorni dopo il sisma, aggiungendo significativamente che il terremoto aveva messo in crisi la Sicilia perché da noi tutto era già una crisi permanente: un affaticato equilibrio di depressione, un assetto instabile di contraddizioni all’ombra del malgoverno mai sconfitto integralmente, nonostante la generosa pressione delle forze nuove.
Ogni volta, piuttosto che partecipare a messe e fiaccolate, a discorsi e rievocazioni, celebro a modo mio questo anniversario; quest’anno me ne andrò a Poggioreale vecchia, il paese fantasma dove il terremoto in qualche modo non vuol finire, visto che di recente è crollata, non per colpa della natura ma dell’incuria umana, la bella torre campanaria della vecchia Matrice.
Ci andrò con in mano un libro di Vincenzo Consolo, L’olivo e l’olivastro, e lì, davanti a quelle case sventrate, a quelle finestre che ti guardano come occhi vuoti, ne rileggerò qualche passo. Si inizia con una fuga, dopo il terremoto, dalla nativa Gibellina, questo libro che già mostra nell’incipit l’eredità di una lingua antica fatta di serrata poesia, di aridi solchi e di sassi: “pietrosa e aspra”. Dal traghetto il protagonista volge il capo all’indietro: “Messina non esiste”. Incontra smarrimento, curiosità e stupore dappertutto. Il treno su cui è salito percorre la penisola, lentamente, con frequenti fermate, giacché quel che è successo (”sacco d’orde barbare o furia di natura”) ha prodotto un mastodontico sconquasso.
Il protagonista lascia il paese, ma ad ogni immagine che gli si para davanti, egli vi legge la storia, le vicende, anche sanguinose, di un popolo antico e nobile. Lasciare l’isola è davvero possibile? Messina distrutta dal terremoto s’insinua dentro queste visioni, come se là fosse rimasto il cuore a pompare la sua vita. Non solo: a cercare, in un tentativo disperato e necessario, di preservare la Sicilia tutta dalla morte. La mente compie un pellegrinaggio al tempio della vita, che è il ricordo: “Viaggiatore solitario per un itinerario di conoscenza e amore”.
Sfilano nomi, immagini, paesaggi, da cui l’isola trae il ceppo e il genio della sua immortalità. Quanto più il protagonista si allontana, tanto più la sua isola rinasce alla vita dallo squasso, dal torpore, dallo svenimento. Di fronte ad una tragedia di morte, il pensiero e l’amore vi contrastano con l’effluvio della eternità, generato dal sentimento e dalla ragione. È una rabbiosa sfida contro “l’impotenza” e “la vulnerabilità” delle cose. Che, nel momento in cui veste i panni di una fuga, di un esilio, sia esso provocato da un terremoto, dall’eruzione dell’Etna o genericamente dalla insofferenza e dalla povertà, si trasforma in lamento, in bruciante rimorso. Non basta fuggire, non basta gridare lo scempio, per sentirsi lontani. Nella sua isola, nuotatore quasi vinto dalla furia del mare, trovò rifugio Ulisse: “Trova riparo in una tana, tra un olivo e un olivastro”.
V’incontra il regno dei Feaci, “che sono vicini agli dèi”, e vivrà felicemente quei giorni alla reggia di Alcinoo, “in seno ad un’alta civiltà”. Si delineano così le tristezze, le nostalgie, le ferite che sempre accompagnano un esule, un fuggiasco dal proprio paese natale. In Ulisse il protagonista identifica il proprio rimorso e la paura. Paura di ciò che di portentoso è avvenuto nell’isola; rimorso per un viaggio intrapreso come sopravvissuto di una realtà che può sfaldarsi, perdersi, divenire irreale. Così l’esilio del protagonista, “il viaggiatore”, “il reduce”, “l’Ulisse di sempre”, diventa, in verità, inconsciamente, il racconto del suo ritorno, o meglio, diventa la frusta del ricordo e della memoria che lo sferzerà per sempre, costringendolo costantemente al ritorno, non importa più se con i segni di una qualche fisicità: “Pensava ch’era stato lui per primo a rompere gli ormeggi, allontanarsi, via per tanto tempo” e “non sa dire quando, tanto lontano questo avvenne nel tempo.”
Narrando di Ulisse, parla di sé: “Mostri generati dai rimorsi. I più tremendi sono, nella favola, nel poema, nell’isola al centro di quel mare, nelle pieghe più oscure e minacciose della sua natura, nella terribilità del suo vulcano, negli scuotimenti della sua terra, nelle insidie delle sue isole intorno”. E ancora: “Metafora di quel che riserva la vita a chi è nato per caso nell’isola dai tre angoli”. Ma il canto di Consolo, il suo poema, musicato dalla evocata e rimpianta grecità, non finisce qui. La mente elabora incessantemente quel suo incantato ritorno: quando descrive ciò che di bello e di antico è stato distrutto nell’isola che ha “albe di cristallo” e “sentieri di silenzi”; quando rivede i pescatori: “Laceri, spossati, dormivano sulle reti, al riparo delle vele”; o i cavatori di pietra: “Erano secchi e grigi i cavatori, avevano denti corrosi dalla polvere”; quando ricorda personaggi che hanno percorso l’isola, tra i quali Verga (cui rende un lungo, fiero e commosso omaggio, tutto da ammirare), Vittorini, Pirandello, De Roberto, Sciascia, Tomasi di Lampedusa, Piccolo, Carlo Levi, Buttitta, Goethe, Guy de Maupassant, Caravaggio, Antonello da Messina, Guttuso.
Egli ritorna esule lontano, l’amore ha disegnato nella sua mente un perenne e definitivo viaggio del ritorno, a cui ha accesso e può accostarsi con il canto felice della poesia. La prosa ispirata di Consolo ricorda in certi tratti, ancor più accentuata, quella di Mario Tobino (al quale si accosta anche per il coraggio di certe denunce sociali), prosa ardimentosa, di un ardimento che è proprio della poesia, che sgorga da profondità sconosciute, libere ed immacolate. Passano le ombre dell’antico, del mito, della leggenda, davanti agli esili tralci (”sagome cave”) della modernità che tutto ha reso vano (”ceri giganti accesi per un dio della malvagità e del disastro”), alla maniera di ciò che videro, nella discesa agli inferi, gli occhi di Ulisse, l’esule per eccellenza.
Ed è Ulisse che incessantemente accompagna il ritorno del protagonista; sempre lo intravediamo accanto ad ogni movimento, ad ogni visione, ad ogni rievocazione, ad ogni personaggio, in ogni luogo (tantissimi, tra grandi e piccoli: da Messina a Catania, Siracusa, Palermo, Trapani, Gibellina, Acitrezza, Caltagirone, Gela, Lipari, Cefalù, Ustica, Noto, Mazara) visitato e rivisitato continuamente dalla memoria e dal ricordo. E di più: tutti gli esuli siciliani diventano e saranno sempre Ulisse (”vide il viaggio d’ogni uomo, l’avventura d’ogni Ulisse”), e in questo modo il tempo antico, con le sue vestigia, coi suoi protagonisti da Eschilo a Catone, fascia il presente, lo annichilisce, e ciò facendo esalta gli afrori del passato che mai, pur in presenza di grandi trasformazioni e apocalittiche calamità, hanno abbandonato e abbandonano l’isola.
La Sicilia, cioè, al di là del rancore che si può provare per il suo degrado, appare come una terra mitica nel cui impasto degenerativo prodotto via via dai secoli resta il lievito del suo nobile lignaggio, che le proviene da quei migranti greci di cui l’autore scrive: “Contadini, pescatori, artigiani megaresi trasportarono sulle loro barche, qui trapiantarono, vicino ai siculi indigeni, le loro credenze, i loro costumi e linguaggi.” Insomma, forse non siamo irredimibili.
Sarei tentato di chiudere questa nota ricorrendo alla solita litania sui ritardi dello Stato e della Regione, sulla miopia della classe politica, sulle inefficienze della burocrazia. Sono storie che conosciamo, e di cui ciascuno deve valutare anche il peso delle proprie responsabilità in termini di acquiescenza, di mancata partecipazione, di mancato controllo. Vorrei, piuttosto, guardare ai segni di rinascita e di ripresa, alle occasioni di sviluppo che, anche alla luce della nostra collocazione mediterranea e degli strumenti di programmazione e di concertazione, si offrono a questo territorio, ponte naturale tra due continenti, pieno di storia e di cultura, ricco di potenzialità economiche nel campo del turismo, dell’agricoltura e della piccola impresa; davvero una terra… in moto. Speriamo.
Francesco Saverio Calcara
AUTORE. Francesco Saverio Calcara
bravo francesco!
ma quale politico ha mai ravvisato,individuato,perseguito mai la vera,improrogabile urgenza del nostro territorio?
attirare gente,competenze,infrastrutture vere e produttive,cose capaci di arrestare l’emorraggia,lo stillicidio di intelligenze che veramente è la piaga che ci tormenta ….
Ho la pelle d’oca. Questa non è prosa comune, è una pagina di altissimo valore civile scritta in uno stile sublime. Non sono siciliano, ma amo da morire la vostra Isola dove crescono degli autentici geni (a volte nascosti). Francesco Calcara è uno di questi e reputo un privilegio averlo conosciuto.
A proposito dell’esule Ulisse, vorrei far notare che anche coloro che non sono dovuti andare molto lontano dalla loro terra, come gli abitanti delle nuove Poggioreale, Salaparuta o Gibellina, sono degli esuli, esuli dentro. Il terremoto inevitabilmente distrugge case, città, comunità e storia di quelle comunità. Avendo conosciuto giovani di quelle nuove realtà ho potuto percepire come, a differenza del sottoscritto che ha origini in un paese appena lambito dal terremoto; non hanno una storia della quale si considerano un divenire, non sono reali partecipi dei loro paesi, ci si sentono come degli estranei (e forse lì lo sono un pò tutti) perchè nulla di ciò che è il paese nuovo gli appartiene veramente (non è appartenuto, d’altronde, ai loro genitori o ai loro nonni); e nulla di ciò che è il paese vecchio gli interessa, non avendovi avuto parte. Queste nuove generazioni si ritrovano così, forse senza saperlo davvero, senza radici, crescendo a forza in una terra che non dà loro acqua che possa sostenerli e cercando un terreno fertile altrove, abbandonando quelle che dovrebbero essere le nuove città e che per loro non sono altro che un insieme di edifici con poco senso. Gli aiuti economici che sono giunti dai tanti governi che si sono succeduti in tutti questi anni non riusciranno e non potranno mai riparare questo tipo di crollo interiore che ogni terremotato, incluso chi il terremoto non lo ha vissuto, si porta dentro.
Seneca, nn inneschiamo polemiche inutili. Rilegga con calma le parole scritte dal prof. Calcara (credo che nn ne abbia colto fino in fondo il senso) e abbia rispetto per una persona degna, professionalmente preparata, culturalmente pregevole (si ricordi che, assieme al dott. Giardina, ha scritto l’unica storia organica della sua città); politicamente apprezzabile (ma cosa c’entra s. giuseppe con calcara che all’epoca forse aveva 15 anni? cosa c’entra il belvedere o l’abusivismo con la sua delega assessoriale?). Desidero, tra le altre cose, ricordarle che si deve a lui la salvezza e il riordino dell’archivio storico e notarile (vada a farci un salto, in via garibaldi: è una realtà grandiosa che nn so quante città in Sicilia possono vantare); l’apertura e la fruizione della collegiata di s. pietro (vada a vedere che meraviglia nasconde la sua città), il restauro e la riapertura della chiesa del purgatorio nel sistema delle piazze; il riordino della toponomastica e tante altre cose che, nei miei consueti ritorni a cvetrano, ho avuto modo di apprezzare. Per piacere, nn riduciamo tutto a sterile polemica. Davanti a un articolo che è, oltretutto, una lezione di stile (e se lo lasci dire da uno che ha insegnato all’università), riflettiamo con rispetto. Grazie.
Onestamente, e chiamo a testimoni i cittadini di cvetrano, nn credo che il prof. calcara debba chiedere perdono di nulla (sul piano pubblico, ovviamente; il resto appartiene al suo foro interiore). Cordialmente.
Poiché costituzionalmente e giuridicamente le responsabilità sono personali, chiedo al sedicente signor seneca di dichiarare le sue esatte generalità e di indicare in modo chiaro e circostanziato le colpe di cui dovrei, a suo dire, chiedere perdono, gridando mea culpa col vangelo in mano e, forse, cospargendomi il capo di cenere.
Diffido, nel contempo, l’amministratore del sito, a pubblicare commenti lesivi dell’onore e della dignità personale, fatto salvo, sempre e comunque, il diritto alla critica seria, argomentata e costruttiva.
Ho apprezzato molto il suo scritto professore Calcara, anche io mi sento un Ulisse.
“Egli ritorna esule lontano, l’amore ha disegnato nella sua mente un perenne e definitivo
viaggio del ritorno, a cui ha accesso e può accostarsi con il canto felice della poesia.”
Come un sarto che taglia e cuce questa sua nota mi porta e mi culla, cosi’ d’improvviso sento il bisbigliare tra i vicoli voci lontane, minareti cantanti, dialetti millenari, profumi di cotture e gelsomino, le cicale, l’afa e lo scirocco, gli anziani di facce scolpite e da pensieri antichi…lu zubbu, la pumaromurina, viremma. Tutto confluente sulla piazza dell’animo mio forte e fiero di questa eredita’. Vedo, respiro e amo la nostra stupenda e travagliata Sicilia.
Poi per un attimo mi ricorda l’amaro in bocca delle situazioni contrastani, delle assurdita’, dei ponti troncati e di cemento, dell’egoismo e dell’avarizia sociale: “al di là del rancore che si può provare per il suo degrado”.
Ho imparato a dividere la terra dagli uomini e in questo trovo conforto.
Non so’ se tutti sono o si sentano in moto professore Calcara.
“Animmulu” e’ il mio cuore per questa mia terra che sospiro da lontano.
Condivido il suo: “Ognuno ha le proprie responsabilita'”, dato che dalle nostre parti ci aspettiamo sempre che gli altri facciano per noi, in questo mi ha ricordato una celebre frase di J.F.Kennedy: “And so, my fellow Americans: ask not what your country can do for you – ask what you can do for your country.”
E’ anche vero che l’unione fa la forza professore e questa ancora ci manca…speriamo.
vorrei sapere da voi cosa ha detto seneca così repèlico pure io
replico pure io. errata corrige. non credo che ci sia niente di offensivo..alle critiche si risponde non si minacciano censure o si sbraita. diffidare… addirittura… ma dall ‘omertà si è passato al ritorno al duce. ma veramente questo seneca non ha il coraggio di parlare…
protesto contro ogni forma di censura, diffidare, ma non si vergogna, attacchi personali.. ma se ne riceve di tutti i colori, ereplichi e basta , cosa c’ di offensivo non si sà…
ho visto di peggio in questo blog , contro il sindaco x i saluti che hanno scatenato un vespaio inaudito di polemiche inutili eppure ha risposto con dignità cosa che lei come vice non ha…tolga la diffida e si comporti da persona matura..vorremmo conoscere cosa la fa infuriare tanto,,, e replicare.e il blogger non censuri…. siamo cittadini maturi non deficenti.anche se lontani, crede che non sappiamo realmente cosa è questo paese,da potere nascondere i suoi problemi, vorrei sapere per chi ci ha preso..parla di costituzione e si dimenticaca l’articolo 21, ma la usa a suo piacere…supponendo che il suo amico seneca abbia detto cose turche si digerisca le critiche e permetta di replicare….