[di Guidoboni e Valensise] Nel gennaio di quest’anno si è ricordato il cinquantesimo anniversario del catastrofico terremoto che ha devastato il Belice nel 1968 (magnitudo Mw 6.5 – Intensità epicentrale X scala MCS ).
Per approfondire gli aspetti di questa sequenza sismica verranno pubblicati due articoli tratti dal volume “Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni”, di Emanuela Guidoboni, storica dei terremoti e dell’ambiente e fondatrice del Centro EEDIS (Eventi Estremi e Disastri), e Gianluca Valensise, geologo e sismologo dell’INGV. Il volume è stato edito da Bononia University Press (ISBN: 978-88-7395-683-9) e pubblicato nel 2011, in occasione delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. I dati su cui è basato il volume sono tratti dal Catalogo dei Forti Terremoti in Italia [1].
Anatomia di una catastrofe
Il terremoto colpì con numerose e violente scosse una vasta area della Sicilia occidentale compresa tra le province di Agrigento, Palermo e Trapani: un’area ritenuta non sismica dalle conoscenze scientifiche del tempo. Nel breve volgere di dieci giorni furono distrutte 9.000 case, numerose antiche chiese, vetusti palazzi e castelli. Si contarono alcune centinaia di vittime e oltre 100.000 senzatetto, 12.000 dei quali emigrarono quasi subito verso l’Italia del nord.
Contrasti istituzionali, una gestione delle risorse non controllata, denunce e conflitti resero difficile e lenta l’opera di ricostruzione. Errori, speculazioni, ma anche idee e preziosità si alternano in questa grande opera di recupero, non ancora conclusa dopo ormai cinquanta anni.
Gli effetti del terremoto
La sequenza sismica iniziò nel pomeriggio del 14 gennaio 1968 con una prima forte scossa alle ore 13:28 locali, che causò danni notevoli a Montevago, Gibellina, Salaparuta e Poggioreale, nonché lesioni in alcuni edifici a Santa Margherita di Belice, Menfi, Roccamena e Camporeale. Meno di un’ora dopo, alle 14:15, nelle stesse località ci fu un’altra scossa molto forte, sentita anche a Palermo, Trapani e Sciacca. Due ore e mezza più tardi, alle 16:48, ci fu una terza scossa, che causò danni gravi a Gibellina, Menfi, Montevago, Partanna, Poggioreale, Salaparuta, Salemi, Santa Margherita di Belice e Santa Ninfa. Lesioni di varia entità si aprirono in molti edifici di Alcamo, Calatafimi, Camporeale, Corleone e Roccamena; a Palermo ci furono danni in edifici di vecchia costruzione. A Gibellina e Salaparuta, in particolare, tutte le scosse precedenti quella più violenta – che accadde il giorno dopo – causarono serie lesioni e compromisero la stabilità degli edifici. Dopo queste prime scosse, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, all’epoca comandante dei Carabinieri di Palermo, visitando nel pomeriggio del 14 gennaio i centri più colpiti, raccomandò alla popolazione di pernottare all’aperto.
Nella notte tra il 14 e il 15 gennaio, alle ore 2:33 locali, una scossa molto violenta causò gravissimi danni e il crollo di alcuni edifici a Poggioreale, Gibellina, Salaparuta, Montevago e Santa Margherita di Belice; fu fortissima a Contessa Entellina e a Corleone, dove causò danni rilevanti, e fu sentita molto forte a Palermo, a Trapani e in tutta la Sicilia occidentale e centrale, compresa l’isola di Pantelleria.
La scossa più forte dell’intera sequenza avvenne poco dopo, alle ore 3:01, ed ebbe effetti disastrosi: crolli e distruzioni diffuse in un numero di località ben superiore a quello delle località già menzionate. Frequentissime e forti repliche non diedero tregua. I morti accertati ufficialmente furono complessivamente 231 e i feriti oltre 600. Fonti indipendenti ritennero, tuttavia, che il bilancio delle vittime fosse molto più alto: oltre 400 morti e più di 1.000 feriti[2]. Il numero relativamente contenuto delle vittime, se paragonato all’enorme portata delle distruzioni, fu dovuto principalmente all’allerta lanciato dal generale Dalla Chiesa.
FOTO – Effetti complessivi del terremoto del 15 gennaio 1968 (dal Catalogo dei Forti Terremoti in Italia).
Quasi tutta la zona collinare della Sicilia sud occidentale – circa 6.200 km2 – fu coinvolta nella disastrosa sequenza sismica del gennaio 1968. L’area dei massimi effetti fu localizzata nel medio e basso bacino del fiume Belice: includeva 12 comuni delle province di Trapani, Agrigento e Palermo, per una superficie di circa mille km2. Questo territorio non figurava allora tra quelli considerati a rischio sismico.
I paesi di Gibellina, Poggioreale e Salaparuta, in provincia di Trapani, e Montevago, in provincia di Agrigento, furono quasi totalmente rasi al suolo, con effetti valutati di grado X MCS. A Gibellina fu distrutto quasi il 100% delle unità immobiliari, pari a 1.980 edifici. Anche a Poggioreale e a Salaparuta fu distrutto il 100% del patrimonio immobiliare, rispettivamente formato da 993 edifici e a circa mille edifici. A Montevago fu distrutto il 99% delle unità immobiliari e fu danneggiato gravemente l’1% rimanente, su un totale di 1.393 edifici. In tutti questi paesi i pochi muri ancora rimasti in piedi crollarono completamente in seguito alla fortissima replica del 25 gennaio, alle ore 10:56 locali. Dopo questa nuova scossa rovinosa, che causò qualche altra vittima, fu proibito l’ingresso nei paesi di Gibellina, Montevago e Salaparuta.
FOTO – Gibellina prima del terremoto: veduta del paese in una foto del 1965 scattata dalla stazione ferroviaria.
Gravi distruzioni, con dissesti e crolli diffusi, colpirono i paesi e i territori comunali di Santa Margherita di Belice, Santa Ninfa, Partanna e Salemi, a cui è stato assegnato il grado VIII-IX o IX MCS. Santa Margherita di Belice aveva 3.646 edifici: le scosse distrussero il 70-80% delle unità immobiliari e lesionarono leggermente le rimanenti. Gravi lesioni danneggiarono anche il palazzo Filangeri di Cutò e la chiesa madre. La replica del 25 gennaio fece crollare un’altra decina di case.
Santa Ninfa aveva 1.928 edifici: ne fu distrutto più del 43%; il 47% fu danneggiato gravemente e solo il 9% risultò lesionato in modo più leggero. La replica del 25 gennaio causò nuovi, gravi danni agli edifici. Partanna aveva 4.345 unità immobiliari: il 30% fu completamente distrutto, il 42% danneggiato gravemente, il 19% lesionato. La replica del 25 gennaio causò il crollo di numerosi edifici.
A Salemi, su 4.402 edifici il 24% fu distrutto, il 45% danneggiato gravemente e il 29% lesionato leggermente. La replica del 25 gennaio causò il crollo di una delle torri del castello di Federico II e danneggiò la chiesa madre, la Biblioteca Civica e il Museo del Risorgimento; crollò anche il ponte della strada per Agrigento. Nelle campagne di questi comuni andarono distrutte anche molte costruzioni rurali.
Oltre una decina di altre località subirono crolli totali più limitati, ma danni ingenti, gravi dissesti e crolli parziali estesi a parte del patrimonio edilizio (grado VIII MCS o appena inferiore).
Menfi aveva 5.978 edifici: la scossa fu rovinosa e danneggiò gravemente il 40-50% delle unità immobiliari, lesionandone lievemente una percentuale analoga. Gravi lesioni si aprirono nel castello medievale, in alcune chiese e nell’ospedale. La replica del 25 gennaio causò nuovi crolli. Nel comune di Vita, su un totale di 1.446 edifici, quelli distrutti furono il 10%, il 15% fu danneggiato gravemente e il 16% circa lesionato in modo leggero; si aprirono lesioni anche nei muri della chiesa madre, che crollò definitivamente con la replica del 25 gennaio.
Danni gravi ed estesi furono rilevati a Camporeale, Contessa Entellina e San Giuseppe Jato, in provincia di Palermo; a Sambuca di Sicilia, in provincia di Agrigento; ad Alcamo, Campobello di Mazara, Castellammare del Golfo e frazione di Castello Inici, Castelvetrano e Gallitello Stazione, frazione del comune di Calatafimi.
Interruzioni delle linee ferroviarie furono rilevate tra Castelvetrano e Alcamo, e tra Castelvetrano e Salaparuta, dove al Km 29 crollò parzialmente una galleria.
In quasi cinquanta altre località, tra cui Mazara del Vallo, Corleone, Marsala, Sciacca e la stessa Palermo, le distruzioni e i crolli furono pochi, ma una parte consistente del patrimonio edilizio riportò comunque danni (effetti di grado VI-VII e VII MCS). In decine di altre località, incluse Agrigento e Trapani, ci furono danni leggeri.
La scossa principale del 15 gennaio 1968 fu avvertita in quasi tutta la Sicilia, fino a Catania, Messina e Milazzo; fu seguita da una lunga serie di repliche, alcune delle quali molto forti, che si protrassero sino al febbraio del 1969.
Perché tanti danni?
Le relazioni scientifiche e gli studi sugli effetti di questo terremoto, svolte da ingegneri, geologi e sismologi, concordarono nell’assegnare alle scadenti condizioni in cui si trovava gran parte del patrimonio edilizio un ruolo importante nella definizione qualitativa e quantitativa dei danni. Ancora una volta era sotto accusa l’edilizia tradizionale, priva di regole, realizzata male e ancor peggio mantenuta. La pessima esecuzione delle murature, tenute assieme con malte di scarsa qualità, l’assenza o l’insufficienza delle fondazioni e la presenza di tetti spingenti mal raccordati con le pareti esterne furono tutti fattori che contribuirono in larga misura a rendere catastrofici gli effetti delle scosse su edifici deboli e sostanzialmente fragili. A questi elementi macroscopici si aggiunsero i risultati delle prove di laboratorio relative al comportamento meccanico dei materiali da costruzione maggiormente impiegati nell’area danneggiata: i blocchi di tufo, tagliati con specifiche misure secondo l’uso della zona, e le malte dimostrarono, in generale, una scarsissima resistenza alle sollecitazioni sismiche.
Dalle indagini sul campo emerse che i pochi edifici correttamente costruiti con strutture di cemento armato avevano superato quasi indenni l’impatto delle scosse persino nell’area dei massimi effetti; infatti gli edifici ben costruiti furono esenti da danni, ma erano una minoranza. L’edilizia prevalente nei paesi distrutti era il risultato di un contesto economico povero, in cui l’agricoltura diffusa era condotta con metodi non intensivi e quasi arcaici, in piccoli appezzamenti familiari. L’economia monetaria era scarsa, i mercati scoraggiati da una pessima viabilità, e a fronte di tutto questo vi era un costo elevato dei materiali da costruzione di buona qualità, difficili da reperire sul posto.
In tutta l’area, che come si è detto all’epoca non era ritenuta a rischio sismico, non erano state adottate misure di sicurezza e di prevenzione, benché, come si ricorderà, la legge del 1935 richiedesse criteri edilizi “moderni” per tutti gli edifici costruiti sul territorio nazionale. Due anni dopo, nel 1970, l’avvio istituzionale delle amministrazioni regionali previste dalla Costituzione delegò alle singole regioni il controllo per l’applicazione delle norme di sicurezza.
a cura di E. Guidoboni (Centro EEDIS) e G. Valensise, INGV-Roma1
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