Si ricorda quest’anno il cinquantesimo anniversario del catastrofico terremoto che ha devastato il Belice nel 1968. Per approfondire gli aspetti di questa sequenza sismica pubblichiamo di seguito un articolo tratto dal volume “Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni”, di Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise.

Nei giorni immediatamente successivi al terremoto tutti gli organi di stampa posero unanimemente l’accento sulla mancanza di qualsiasi piano d’intervento. Alcuni opinionisti evidenziarono le ricorrenti sovrapposizioni di competenze e i conflitti, o le competizioni incomprensibili tra le autorità civili e quelle militari, o tra esponenti del governo regionale e funzionari del governo nazionale, nell’organizzare l’opera di soccorso. Le disfunzioni ebbero conseguenze gravi: quantità enormi di generi alimentari ed attrezzature di soccorso furono concentrate dove non vi erano particolari bisogni, mentre dalle località più colpite si levavano drammatiche richieste di invio di soccorsi e materiali. Le disfunzioni e i ritardi ebbero tuttavia il merito di offrire lo spunto per avviare sulla stampa nazionale un vasto dibattito sulla legge di riordino del settore della protezione civile, la cui discussione era bloccata in Parlamento per contrasti fra diversi gruppi politici.

A dieci giorni dalla violenta scossa del 15 gennaio erano state impiantate 11 tendopoli, che accoglievano più di 16.000 persone: circa 9.500 in provincia di Trapani, 4.000 nella provincia di Agrigento e 2.600 in quella di Palermo. Gli sfollati ricoverati nei centri di raccolta (scuole, alberghi, edifici pubblici e case private) erano, alla stessa data, 10.650 in provincia di Trapani e 3.050 in quella di Palermo, per un totale di quasi 14.000 persone. Molti posti letto in edifici in muratura, messi a disposizione delle autorità, non potevano essere utilizzati perché mancavano i materassi.

Testimonianze di alcuni abitanti di Santa Ninfa, riportate dalla stampa nazionale, e in particolare le dichiarazioni rilasciate da don Antonio Riboldi, all’epoca parroco del paese e in seguito coraggioso accusatore di interessi illegali sulla ricostruzione, resero pubblico il fatto che i primi soccorsi erano giunti da militari statunitensi nel pomeriggio del lunedì 15 gennaio. Solo dopo cinque giorni dalla scossa principale, ossia il 20 gennaio, erano giunti i primi soccorsi organizzati, portati dalla Marina Militare italiana, che aveva ricevuto disposizioni in tal senso solo il giorno precedente.

La situazione di disorganizzazione causò proteste sia in Sicilia sia a Roma, e vari episodi di intolleranza. A Palermo le scosse del 15 e del 25 gennaio resero drammatico il problema delle abitazioni per gli sfollati dai fatiscenti quartieri del centro storico, che avevano largamente risentito degli effetti sismici.

Le comunicazioni ufficiali del governo (terzo mandato di Aldo Moro) durante la seduta parlamentare del 22 gennaio 1968 attribuirono le difficoltà incontrate nel portare soccorsi alle popolazioni ad avversità climatiche, all’interruzione delle strade o alla loro mancanza, e all’atteggiamento non collaborativo delle popolazioni. Da più parti fu denunciato l’uso strumentale del terremoto sia da parte delle forze politiche di opposizione, sia da parte di quelle di governo. Lo scontro politico ebbe conseguenze negative sull’opera complessiva di soccorso e di ricostruzione. In realtà la quantità di aiuti e di concessioni elargite dallo Stato era stata notevole, ma era mancato quasi completamente una piano per una loro razionale ed efficace ripartizione. A tutto ciò si aggiunse una strisciante polemica sulla reale entità dei danni causati dal terremoto tra i rappresentanti del governo regionale siciliano e quelli del governo nazionale.

Santa Ninfa: i resti della chiesa Madre.
Verso la fine di gennaio 1968 i medici presenti nella zona terremotata dichiararono a più riprese sulla stampa nazionale che le tendopoli dovevano essere al più presto smontate, per evitare che le precarie condizioni igieniche, unite all’inclemenza della stagione invernale, causassero l’insorgere di epidemie e la morte degli individui più deboli. Se ai dati relativi alla popolazione nelle tendopoli e nei centri di raccolta si aggiunge il numero di coloro che se ne erano andati – circa 10.000 persone – si ha un totale di circa 40.000 individui che avevano perso la residenza, su di un totale di 80.000 residenti nelle aree maggiormente danneggiate.

A Vita, il giorno immediatamente successivo alla scossa principale, gli abitanti si erano accampati in luoghi aperti, costruendo da soli capanne di frasche e di canne con tetti di paglia. Il 22 gennaio si era diffusa la notizia che il Provveditorato regionale alle Opere Pubbliche della Sicilia, su disposizione del Ministro dei Lavori Pubblici, aveva ordinato 5.235 baracche, la cui fornitura era prevista nell’arco di 20-40 giorni. Il 2 marzo seguente le baracche impiantate, secondo i dati pubblicati, erano solo 92.

Poggioreale: i resti della chiesa oggi, nel sito abbandonato.
Le autorità facilitarono in ogni modo il movimento migratorio, concedendo biglietti ferroviari gratuiti e rilasciando, senza formalità o intralci burocratici, i passaporti. Con questa linea di condotta si accolsero le richieste dalla gente, ma soprattutto si percorreva la strada più semplice per attenuare la pressione sociale nei paesi devastati. Contro questa strategia dell’abbandono si pronunciarono le organizzazioni locali degli agricoltori e le associazioni sindacali. Dopo la rovinosa replica del 25 gennaio 1968 le autorità proclamarono i paesi di Gibellina, Montevago e Salaparuta “zone proibite all’ingresso”.

Le perizie dell’ufficio tecnico del Genio Civile di Agrigento negli ultimi giorni del gennaio 1968 riportarono le cifre dei senzatetto per nuclei familiari: 750 famiglie a Montevago, 2.100 a Santa Margherita di Belice, 200 a Sciacca, per un totale di circa 80.000 persone. A circa un mese di distanza dall’inizio del terremoto, attorno alla metà del febbraio 1968, nella sola provincia di Trapani circa 9.000 senzatetto erano ricoverati in edifici pubblici, 6.000 in tendopoli, 3.200 in tende sparse e 5.000 in carri ferroviari, mentre 10.000 persone erano emigrate in altre province. Rimanevano da sistemare circa 47.000 persone.

fonte. IngvTerremoti

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