
© Alen-D (fotolia)
Oggi tutti conoscono il termine “selfie” ed il suo significato è presente anche in prestigiosi dizionari come l’Oxford Dictionary che lo definisce come: “fotografia fatta a se stessi, solitamente scattata con uno smartphone o una webcam, e poi condivisa sui social network”
Non ci sarebbe nulla di male nel farsi un “autoritratto” ma questo fenomeno rappresenta un problema quando scattare il proprio autoritratto diventa una routine quotidiana, quando di fronte all’impossibilità di postare le foto si manifestano sintomi di astinenza come avverrebbe con l’eroina. In questo caso, siamo di fronte alla dipendenza.
L’associazione psichiatrica americana, A.P.A., ha ufficialmente riconosciuto la dipendenza da selfie come una vera e propria mania e disturbo mentale.
La notizia è confermata anche da un prestigioso ente italiano, la S.I.I.Pa.C. (Società Italiana di Intervento sulle Patologie Compulsive) che sul proprio sito internet chiarisce i vari livelli della patologia:
AUTORE. RedazioneIl disturbo è considerato saltuario se i selfie sono 3 al giorno, ma solo se queste foto non vengono pubblicate sui social network quali Twitter, Facebook e Google Plus, mentre la selfies (la patologia) inizia ad essere cronica quando un uomo od una donna sono ossessionati dalla mania dei selfie, ovvero che in ogni luogo, posizione ed ora hanno l’ossessione di far vedere al mondo cosa stanno facendo, che sia una fermata dell’autobus o la spesa al supermercato, ogni momento della giornata diventa buono per sponsorizzare la propria immagine, con atteggiamenti curiosi e pose strane, al resto del mondo.
La Selfie Addiction, come anche altre dipendenze comportamentali è centrata sull’immagine corporea, sul perfezionismo e su un’autostima patologicamente bassa.
È una sorta di “narcisismo digitale” per riferirsi alla pratica di apparire ed esibirsi sul web tramite foto, video, messaggi o frasi condivise sui social network e i blog. Tale fenomeno sarebbe legato al “carattere narcotizzante e invadente che le immagini assumono ai nostri occhi” e alla “cultura della visibilità”.